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Nel 1875, sei anni prima di scrivere Pinocchio, Collodi accetta dall’editore Paggi di Firenze un incarico che dapprima lo incuriosisce e lo attrae e alla fine lo appassiona: quello di tradurre dal francese le fiabe di Charles Perrault, l’insuperato maestro di un genere che tra il Sei e il Settecento toccò il suo apice alla Corte del Re Sole, lasciandoci quei capolavori della letteratura infantile che sono ancora oggi il patrimonio fantastico di bambini e adulti, da Cappuccetto Rosso alla Bella addormentata nel bosco, da Cenerentola a Barba-blu, al Gatto con gli stivali. A queste fiabe Collodi ne aggiunse altre delle maggiori favoleggiatrici francesi del Sei-Settecento, Madame d’Aulnoy e Madame Le Prince de Beaumont, scrittrici di raffinata eleganza e delicata sapienza psicologica. Egli però non si limita a tradurre con impareggiabile aderenza: spesso il suo istinto narrativo lo porta a colorire e vivificare il linguaggio un po’ inamidato degli originali, mettendovi tocchi di arguzia toscana e di spontaneità popolaresca. E la Corte di Versailles si trasferisce così, con il suo seguito luminoso, in una Toscana granducale e umile.
I racconti delle fate ebbero immediato successo e segnarono una svolta nella vita dell’autore, avvicinandolo a un genere che doveva renderlo immortale. Essi vengono qui riprodotti integralmente, con le illustrazioni di Doré, e offrono almeno due motivi di grande fascino: ci restituiscono in una lingua viva, comunicativa, parlata, i vertici della favolistica europea e sono al tempo stesso una anticipazione felicissima – sul piano del talento linguistico e inventivo – della creazione di Pinocchio.
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