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Recensione di Davide Morelli Racconti allegri e amari Questi nove racconti scritti nei primi anni settanta da Padovano descrivono una civiltà contadina ormai scomparsa a causa del progresso, che secondo l’autore “è più irrazionale dell’uomo che produce”. Una civiltà contadina, che si è estinta ed è stata sostituita dalla “civiltà dei consumi”. Luoghi, mestieri, tradizioni, che sono scomparsi. Un sapere fatto di proverbi, che è andato perduto per sempre. L’industrializzazione e l’urbanizzazione hanno costretto il contadino a divenire operaio. La devastazione paesaggistica prodotta dalla speculazione edilizia ha stravolto i paesi di un tempo. La cosiddetta “cultura di massa” ha cancellato anche gli elementi folkloristici di questo mondo. Gli stessi umanisti spesso hanno rimosso questa problematica, perché troppo occupati ad analizzare la crisi della borghesia oppure perché volgevano il loro sguardo verso l’operaismo. Così nell’arco di pochi decenni i mass media sono riusciti ad ottenere il livellamento e ad annullare ogni particolarismo, che significava anche legame con la propria terra, identità e radici del popolo. È scomparsa una civiltà contadina, che si poggiava sull’empirismo ed allo stesso tempo, essendo determinata dalle stagioni, era avvezza alle pratiche magiche. Un mondo costituito da sacrifici, stenti, divinazioni e superstizioni. Un mondo però che possedeva a differenza di quello odierno una comunità e di conseguenza anche un’autentica solidarietà ed una saggezza priva di intellettualismi. In questi racconti sono descritti i vinti. Troviamo contadini costretti a sopportare i soprusi e i trucchi alle stadere dei “vastasi” (compratori di olive per conto di terzi) nel racconto “Tra i santi” oppure a tollerare compratori, che “disprezzano” l’uva come nel racconto “Il contratto”. Sotto molti punti di vista si può definire Padovano un autore neoverista ma certamente non un epigono del Verga per diverse ragioni. Prima di tutte: Verga era ateo mentre i racconti..
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