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Recensioni Il quinto evangelio

Il quinto evangelio di Mario Pomilio
Recensioni: 5/5
A distanza di quarant’anni dalla pubblicazione, sempre più Il quinto evangelio appare «uno degli ultimi grandi romanzi italiani» (come lo definisce Gabriele Frasca nel potente saggio incluso in questa nuova edizione, la quale riporta anche – grazie alle carte depositate al Fondo di Pavia – un insight nel suo travagliato processo compositivo). Composto negli stessi anni di Petrolio di Pasolini e degli ultimi racconti di Manganelli, è loro accomunato dalla «filologia fantastica»: presentandosi come raccolta di materiali dei quali l’autore si finge mero trascrittore. Così rinnovando, moltiplicandolo, lo stratagemma – di anche manzoniana memoria – del “manoscritto ritrovato”. Ma dando pure vita, come a caldo annotò lo stesso autore, a «un’opera totale che oltrepassa le solite barriere dei generi letterari e riesce insieme narrazione e saggio, dibattito d’idee, fantasia e, possibilmente, poesia». Ora, se c’è un testo che vive la sua unità, da sempre, nella collazione di versioni diverse questi sono appunto i Vangeli: da sempre facendo immaginare una fonte ulteriore, più vicina alla Parola di Cristo. È questa l’«emozione culturale» che ha ispirato a Mario Pomilio la vicenda di Peter Bergin, soldato americano che nel 1945, in una canonica bombardata di Colonia (sul finire, dunque, del «buio allo stato puro» della guerra: come in due altri capolavori degli stessi anni, L’arcobaleno della gravità di Pynchon e Horcynus Orca di D’Arrigo), scopre dei materiali relativi proprio al mitico quinto evangelo. Inizia così una quête, che utilizza con inquietante frequenza l’apocrifo Vangelo di Tommaso (scoperto, giusto nel ’45, nel sito gnostico di Nag Hammâdi) e diviene la più profonda metafora del tormentato rapporto con la fede degli uomini del nostro tempo (nella «sfida sperimentale», come la definì l’autore, che meglio ha interpretato lo spirito del Concilio). Perché se «Iddio ci ha parlato una volta per tutte, attraverso i Vangeli» il suo silenzio, da allora, va preso «come un mutismo deliberato. O, più verosimilmente, come una delega permanente della Parola. Spetta ora a noi parlare di lui, e se è possibile in nome suo». )
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