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I quattro ragazzi di cui parla il giornalista-scrittore Salvatore Scalia nel suo libro "La punizione" avrebbero dovuto essere a scuola un mattino di maggio del 1976.E invece,distribuiti su due Vespe cinquanta,si aggirano nel degradato quartiere popolare San Cristoforo a Catania.Attratti dalla borsetta di un'anziana donna,madre di un superboss, gliela strappano derubandola di un misero bottino.Finiranno, secondo quanto racconterà anni dopo un pentito in preda ai rimorsi,strangolati e gettati in fondo a un pozzo.Spettatori muti di conflitti quotidiani che si consumano all'interno di nuclei familiari disgregati,alle prese con una realtà inafferrabile quanto terribile,defraudati della spensieratezza e della serenità precipue della loro età,i ragazzi protagonisti del libro di Scalia parlano e agiscono come gli adulti.Le moto potenti e scintillanti di cromature li mandano in estasi e incarnano la loro aspirazione alla felicità-libertà.Senza enfasi e manierismi ma con disarmante essenzialità, Scalia punta i riflettori sui deboli e i diseredati che la società cosiddetta civile dovrebbe proteggere e che invece abbandona.Racconta uno spicchio di Sicilia senza luce e senza infanzia,che procura disagio e angoscia nella mente del lettore,alle prese con immagini e situazioni che denunciano il profondo degrado in cui vive tuttora una parte non trascurabile della popolazione catanese,condannata alla marginalità sociale,all'inadempienza scolastica,al lavoro precoce e privo di serie prospettive,a una condizione di invivibilità e di insicurezza,che in definitiva incoraggiano la pratica di comportamenti trasgressivi e criminali.Chiama in causa il fallimento della scuola e della famiglia, due agenzie storicamente demandate all'educazione e alla formazione dei ragazzi,oggi lasciati sempre più soli davanti alla complessità sociale, ma anche il cinismo della nostra classe politica con la sua amministrazione spesso burocratica,grigia e faccendiera,indifferente nella sostanza al futuro della gioventù che "sbanda a povere mete"
“La punizione” sotto le stelle di primavera L’abilità narrativa di Scalia, giornalista e scrittore etneo, introduce il lettore, quasi accompagnandolo per mano, in una vicenda tanto lontana nel tempo quanto vicina al cuore di ogni siciliano. Da uno squarcio nel tempo, una memoria fossile, che disperatamente cerca d’aprirsi un varco, emerge assurdamente viva un’immagine di dolore che prende corpo dalle rivelazioni di un pentito. Quattro ragazzini, ancora implumi, si aggirano, la mattina di sei lustri or sono, ai margini del mercatino rionale di un quartiere popolare a Catania. A bordo di due “Vespe cinquanta”, di quelle “smarmittate”, si inseguono piroettando tra la gente. L’inebriante ed intenso profumo di zagara avvolge, in un intimo abbraccio, quel giorno di maggio foriero di tante speranze. Un dì, forse, come gli altri che segna il destino dei quattro sbarbatelli. Adocchiata un’anziana signora, che scelgono come preda, consumano, nello spazio di un miserere, l’insano gesto dello scippo. Un’azione veloce che schiude le porte di una dimensione altra in cui di lì a poco verranno catapultati. Non sanno di aver derubato la madre di un capo mafia. Così da predatori diventano prede. Nel giro di poche ore sono identificati, rintracciati, portati via. Spariranno nel nulla. All’ombra di Mongibello si nasce e sotto di essa si muore. Ultima immagine è quella crepuscolare che vede i quattro ragazzini condotti in quel viaggio di sola andata cui fa eco il silenzio delle madri. Così il cieco destino di quei quattro adolescenti, la cui infanzia è spezzata sotto le stelle di primavera. Urla senza suono. Sudori freddi. Battiti accelerati. Poi il silenzio sotto quel cielo. Un cielo primaverile come tanti altri. Un vespro che Scalia descrive con mirabili pennellate narrative. Un crepuscolo che, con viso spaventato, instilla le ultime gocce di luce. Il giorno fugge per fare spazio a quella linea d’ombra che lentamente avanza come mare di piombo che inghiotte i ragazzi. Giustizia è fatta, ma l’ingiustizia incombe.
Recensioni
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Impossibile precisarne i toni, da supplica, da prece, da implorazione, da lithè. Quando sua madre gli diceva: "Pietro non tirare pietre (Petru non tirari petri, in siciliano l'impropria anafora più si apprezza nell'agonia, quasi labiale, dell'ultima sillaba), non era una donna né più una madre. Era nei suoi quarant'anni un serpaio di varici, una gravidanza infinita, quindici figli, undici maschi e quattro femmine, in ventisette anni di schiavitù al marito. Erano panni da lavare, i figli, minestre da cucinare, debiti alla bottega per il pane la pasta i legumi. Pietro, malpelo di carattere e ringhioso, tirava pietre a tutti e a tutto, uomini cani case. La pietra era il manifesto della sua ribellione, il salvacondotto della sua apostasia.
Poi, avrà avuto tredici anni, scomparve dalle case popolari, dove anch'io vivevo, e nessuno lo cercò mai. Né sua madre lo cercò mai, quasi sgravidata di quel figlio che forse s'era imbarcato o se n'era andato con gli zingari a chiedere elemosine, o solo a rubare. Salvatore Scalia in questo libro percorre, per efficacissima istologia emotiva, nella Catania degli anni settanta, la sparizione di quattro "carusi", che lo scippo, la lambretta truccata, la parola tumefatta, travestita da boss di quartiere, emancipa e fa sentire adulti, senza che siano mai stati bambini. Dal seno della madre al sellino della lambretta senza alfabeto d'infanzia, senza strofe di gioco. Uccisi, i carusi "piscia letto", per avere scippato della borsetta la madre di un capo mafia, nel quartiere San Cristoforo, a Catania. Il fatto di cronaca, denunciato anni dopo da un pentito, è per l'autore solo l'occasione per una doglia antica, da siciliani, doglia antica e inebetita. Paura spossatezza miseria rinnegano le viscere di madre che persino la maternità animale rivendica per il proprio cucciolo.
Quella del romanzo è la Sicilia degli anni settanta, ma l'"anagrafe" della storia, col suo calendario di sangue, è scartavetrata da uno scirocco emotivo millenario, che un isolano chiama rassegnazione, un altro espiazione, un altro virtù. È la sparizione della Madre, il grande lutto del romanzo, più e oltre la sparizione dei figli, più e oltre la sparizione d'una Giustizia che, anche nella Sicilia di oggi, quasi mai viene garantita dal diritto dei codici, delle sentenze, dei tribunali saziati solo dai "corpi di reato". Nessuna condanna per l'omicidio dei carusi, "davanti al tribunale di Catania l'imponente statua della giustizia sonnecchia". Non la sveglia il pianto dei carusi affamati dentro la stalla, strangolati, gettati in un pozzo dove l'acqua farà da boia, per uno di loro ancora vivo "quanto tempo sarà passato prima che affogasse là in fondo, nell'acqua con i cadaveri dei suoi compagni?". Sonnecchia la giustizia né la sveglia il Vulcano che, come un dio della tragedia greca, col latrato delle sue viscere di lava, minaccia di punire la hybris, non del mafioso Nitto o del mafioso sicario Calderone, ma del mafioso più empio e scellerato: il silenzio, di ieri di oggi. Silenzio della coscienza che non sonnecchia come la giustizia, ma come Lete della dimenticanza ha dimenticato, non fa differenza tra carnefici e vittime, tra boss e bambini.
È trenodia composta, quella di La punizione, senza gemito, impossibile distinguerne il pianto dal compianto. Inutile gridare, il grido non ferma l'assassino, si uccide anche in silenzio, e anche il silenzio uccide. Chissà se anche Pietro che tirava "petri" non sia stato "punito", magari lavorato in una fabbrichetta e venduto come sapone a pezzi, o dato come sugna da mangiare ai gatti. Sua madre non lo cercò mai, solo che, fino alla sua morte, chiamò Pietro tutti i suoi dieci figli maschi. Perché lo aveva più amato? No, solo perché più per Pietro che tirava pietre aveva penato.
Silvana Grasso
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