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Provincializzare l'Europa - Dipesh Chakrabarty - copertina
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Provincializzare l'Europa - Dipesh Chakrabarty - copertina

Descrizione


Il pensiero europeo è allo stesso tempo indispensabile e inadeguato per riflettere sulle esperienze di modernità politica nelle nazioni non occidentali. Indispensabile perché le idee proposte dall'Illuminismo europeo rimangono la fondamentale base di ogni critica sociale che affronti i problemi della giustizia e dell'equità. Inadeguato perché la transizione capitalista nel Terzo mondo, se misurata con gli standard occidentali, appare spesso incompleta o inefficace. Già dalla metà del XX secolo la cosiddetta "epoca europea" della storia moderna ha cominciato a lasciare spazio ad altre configurazioni. Provincializzare l'Europa non significa abbandonare il pensiero europeo, ma riflettere su come rinnovarlo per e dai suoi margini.
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Dettagli

2004
Libro universitario
365 p., Brossura
9788883533082

Voce della critica

"Provincializzare l'Europa – recita l'incipit di questo libro – non tratta di quella parte del mondo che chiamiamo 'Europa'. Quell'Europa, potremmo dire, è già stata provincializzata dalla storia". Fatto, quest'ultimo, di cui siamo sempre più consapevoli noi europei di fronte all'escalation geopolitica degli Stati Uniti e a quella economica della Cina. Ciò che secondo Dipesh Chakrabarty resta ancora da provincializzare è "una figura immaginaria che rimane profondamente intessuta nelle forme schematiche e stereotipiche costitutive di alcuni dei modi di pensare abituali che sottendono invariabilmente ai tentativi delle scienze sociali di affrontare le questioni relative alla modernità politica nell'Asia meridionale".

In altre parole, lo storico indiano cerca di decostruire l'implicita modellizzazione di ogni modernità su quella europea, prospettiva che tende a leggere ogni fenomeno come falsamente sincronizzato su una progressione storica che è quella del "vecchio continente" (definizione che già sottende questa forma mentis). Si pensi a un'argomentazione tipica di tanti dibattiti nostrani: "I paesi islamici sono ancora fermi al Medioevo, o non hanno ancora avuto l'Illuminismo". Ragionamento che tira in ballo sempre e solo queste due epoche, essendo abbastanza imbarazzante ammettere che i medesimi debbano passare anche attraverso le guerre napoleoniche, la colonizzazione di vari continenti, un paio di conflitti mondiali e una Shoah per arrivare a una forma compiuta di civiltà "superiore". A questo proposito l'autore ci fornisce una definizione assai calzante: "Lo storicismo – così come la moderna concezione della storia – raggiunse le popolazioni non europee nel XIX secolo come il 'non ancora' (not yet) ingiunto da qualcuno a qualcun altro".

Chakrabarty non sta per questo cedendo alla tentazione di un facile relativismo culturale o alla negazione dell'influenza esercitata dal pensiero e dalla politica occidentale sulla modernità indiana. Vuole piuttosto esorcizzare il demone dell'analogia e rimpiazzarlo con un approccio dialettico in cui si riconosca che "il pensiero europeo è allo stesso tempo indispensabile e inadeguato per riflettere sulle esperienze di modernità politica delle nazioni non occidentali". Lo evidenzia il libro stesso con la sua struttura, diviso com'è in due sezioni poste sotto la rispettiva egida di Marx e Heidegger.

Nella prima parte del libro, Chakrabarty si concentra su storie di contadini, di gruppi tribali e altri soggetti subalterni (in dialogo con il gruppo di storici indiani dei Subaltern Studies). Qui il suo nume è Marx, al quale Chakrabarty si associa per sottolineare come il già citato imperialismo temporale sia strumentale all'imposizione del modello capitalistico su scala mondiale. Dalla storiografia marxista, anche indiana, si distacca invece perché colpevole di aver spesso letto spesso la storia indiana sotto il segno della "mancanza e del fallimento" rispetto a un implicito referente europeo (Marx notoriamente vedeva di buon occhio il colonialismo britannico come veicolo di entrata dell'India nella modernità). Secondo punto dolente è quel concetto di essere umano astratto, centrale per la critica del capitalismo ma fallace nell'annullare ogni questione di differenza culturale, etnica, sessuale. Affrontando una vicenda di lotte anticoloniali nel Bihar, Chakrabarty sostiene che affermare che gli dei combattevano a fianco dei gruppi tribali nelle lotte per i loro diritti non implica soccombere a un pensiero magico-superstizioso bensì riconoscere che l'"oppio dei popoli" può diventare all'occorrenza un agente progressivo della storia in quanto preziosa risorsa culturale mobilitata dai più deboli a favore delle proprie istanze emancipatrici.

Chakrabarty è uno storico bengalese che ha insegnato prima in Australia e ora negli Stati Uniti, esponente di quella vivacissima diaspora intellettuale indiana (Homi Bhabha, Gayatri Spivak, Arjun Appadurai, Amitav Ghosh, ecc.) che sta offrendo preziosi contributi alla riflessione sulla globalizzazione. Tenendo presente i suoi punti di riferimento geografici e culturali è comprensibile che alcune delle sue tesi possano apparire meno originali al lettore italiano, che rispetto al suo corrispettivo statunitense non si scandalizza troppo alla convivenza di marxismo e religione. Ma il rapporto tra la critica al capitalismo e la valorizzazione della diversità culturale resta tuttavia un problema centrale, quello con cui si confrontano i teorici della moltitudine, che cercano una categoria che abbia la stessa forza dal basso del mitico proletariato e che non appiattisca le differenze che passano tra un indio del Chiapas e un disoccupato ucraino.

Alla ricerca di tale prospettiva non universalizzante, Chakrabarty si affida a Heidegger, in quanto icona di quell'ermeneutica che "ritiene che il pensiero sia legato intimamente a luoghi e forme di vita particolari". In questa seconda sezione, intitolata Storie dell'appartenenza, l'autore prende in esame la borghesia colta bengalese (classe cui egli stesso appartiene) per analizzare i modi in cui essa si è confrontata, durante e dopo il dominio britannico, con i temi classici dell'Illuminismo europeo: diritti, cittadinanza, fratellanza, nazionalismo e così via. Fra i vari temi trattati (la violenza domestica, la vedovanza, il lavoro domestico) si può scegliere a titolo di esempio quello dell'adda, pratica sociale tipica della città di Calcutta nella prima metà del Novecento che l'autore definisce come "l'attività di un gruppo di amici che si riunisce per conversazioni, lunghe, informali e non rigorose".

Ciò che interessa a Chakrabarty è vagliare i modi in cui questa forma di socialità tradizionale si sia misurata con i parametri della modernità capitalistica. Nel dibattito indiano essa diventa di volta in volta luogo di oziosa conversazione, e quindi nemica della produttività, oppure laboratorio di costruzione di una soggettività borghese capace di sottrarsi alle pastoie del familismo indiano; club maschile che emargina le donne oppure sfera pubblica dove si accorciano le distanze tra i sessi; apoteosi dello snobismo bengalese o spazio di sviluppo di una visione democratica e cosmopolita. Chakrabarty conclude che l'adda è soprattutto una fantasia nostalgica, un'istituzione scomparsa sulla quale i bengalesi di oggi sembrano proiettare le loro ansie riguardo alla modernità globalizzante. Uno degli aspetti più interessanti dell'opera è che per ciascun tema l'autore compie attente disanime lessicografiche perché ad esempio tradurre adda con "salotto" significherebbe ricadere in quella trappola analogica che per ogni fenomeno sociale presuppone un termine astratto universale che di fatto coincide con una pratica europea.

In definitiva questo libro può interessare lo specialista di storia e cultura indiana, lo studioso di postcolonialismo e quello di filosofia della storia. Rettificando l'asserzione iniziale dell'autore, si può aggiungere che in fondo tratta anche della nostra Europa, perché fornisce una prospettiva sulla diversità culturale alternativa a quella che in Italia troppo spesso si polarizza sulle posizioni di un monoculturalismo esclusivista da un lato (il "mamma li turchi") e di un ingenuo relativismo dall'altro (il "volemose bene").

Con Provincializzare l'Europa l'editore Meltemi continua ad arricchire la sua e nostra biblioteca postcoloniale e a divulgare quel dibattito e quel linguaggio di ispirazione poststrutturalista che è pane comune nel mondo anglofono e che deve aver creato più di un grattacapo al traduttore, che se l'è cavata egregiamente. L'esigente recensore chiede invece, per la prossima volta, anche un indice dei nomi e degli argomenti, indispensabile per un volume così articolato ed eterogeneo.

 

 

Shaul Bassi

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