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La Prophecy of Dante – poemetto in terza rima dantesca uscito a Londra nel 1821 – è una delle opere forse meno note di Byron, eppure di grande rilievo, frutto di un momento particolarmente significativo e intenso della sua vita. Densa di accenti politici, civili e sentimentali, la Profeziasegna l’identificazione di Byron con Dante, anch’egli esule, pellegrino profeta e patriota. A fronte, la traduzione “storica” di Michele Leoni (1821), e in appendice quella di Lorenzo Da Ponte, uscita nello stesso 1821.
recensioni di Rognoni, F. L'Indice del 2000, n. 01
Composta nell'estate del 1819, su invito dell'amata Teresa Guiccioli, pubblicata due anni dopo, la Prophecy of Dante non è certamente "la cosa migliore che abbia mai scritto" - come Byron (1788-1824) s'azzardò a dichiarare in una lettera al suo editore. Ma tant'è: anche fra le braccia della sua musa più congeniale, ch'è la musa comico-satirica (nella primavera del 1820, il Don Juan era già al quarto canto), Byron resta sempre anche "byroniano", e il suo indomito Dante ("esilio sì, ma servitù non mai") è piuttosto fratello dei vari fatali Corsari, Giaurri, Manfredi, che del più solare e ingenuo seduttore sedotto, il giovane Juan.
In quattro canti in terza rima (che è metro difficile, assai riottoso alla lingua inglese), un Dante molto prometeico, reduce dal viaggio ultraterreno, votato all'esilio e ormai quasi in punto di morte, profetizza l'unità d'Italia sotto gli auspici di una nuova, libera poesia - dove per "poesia" s'intendano (un po' come nella Defence of Poetry [1821] dell'amico Shelley) tutte le forme artistiche, anzi ogni attività dello spirito che crea: "ché il crear per un senso ardente e forte [for overfeeling] / di gioia o duolo, poesia si chiama".
Così Lorenzo Da Ponte (1749-1838), il librettista mozartiano, il quale, "per una certa analogia che, salve le debite proporzioni, mi parve di trovare fra le vicende di Dante e le mie" (ma l'identificazione è anche di e con lo stesso Byron), traduce e pubblica la Profezia a New York (1821). E Byron, che di solito le traduzioni le vedeva come il fumo negli occhi (nel caso di "una minacciata versione del Manfred", era arrivato a pagare il traduttore perché costui non lo traducesse!), questa volta è così entusiasta da contemplarne una ristampa a sue spese, tanto l'intriga - come spiega in una lettera - la "singolare circostanza di un inglese che compone un poema con Dante come personaggio - in Italia e sull'Italia - e di un italiano che la traduce in America (cosa che in Italia non osano fare - sotto quei farabutti degli Austriaci)".
Mentre non sembra che il poeta s'accorgesse dell'altra, sempre assai tempestiva (1821) versione della Profezia, negli endecasillabi sciolti di Michele Leoni (1776-1858): il quale già aveva tradotto il Lamento del Tasso e il IV canto del Childe Harold, senza sforzarsi in alcuno modo di conservarne la strofe (che il Da Ponte rispettasse la terza rima fu senz'altro un titolo di merito agli occhi di Byron). Di Leoni s'accorse invece la polizia toscana, che - badando non tanto alle forme metriche quanto ai contenuti - trovò che "l'opera non è sicuramente scritta nello spirito del nostro Governo, né di alcuno dei Governi d'Italia. Mi sembra anzi dettata per aumentare le agitazioni dei popoli abbastanza forse agitati" (rapporto del Regio commissario di Volterra al Presidente del Buongoverno di Firenze, 9 febbraio 1822).
Uno degli aspetti più interessanti di questa preziosa edizione - impeccabilmente curata a quattro mani da un'anglista e un filologo italiano - è proprio nella ricostruzione delle dinamiche non solo letterarie ma spesso anche politiche della traduzione, e degli usi a cui una versione può essere piegata (pubblicata con l'originale a fronte, quella di Da Ponte diviene, abbastanza inaspettatamente, anche un vero e proprio "libro di testo" per lo studio dell'italiano in America). Se, come afferma Byron, già sulla difensiva nella prefazione al poemetto, "Uno degl'inconvenienti, a cui van soggetti gli autori moderni, si è che difficilmente possono sfuggire una traduzione", è però vero che, quando l'opera ha perso parte della sua "modernità", può essere proprio l'avventura delle sue traduzioni a restituircela attuale.
(F.R.)
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