Il presupposto di partenza, per Celestini, è la nota tesi gramsciana della rivoluzione mancata, progetti e ideali disattesi, speranze dei figli tradite dai padri. Ma la riflessione sul Risorgimento da cui comincia il racconto è un continuo lanciare ponti su alcuni dei nodi più critici della storia del paese: dalla Resistenza agli anni di piombo, fino a toccare il presente. Intanto la prospettiva: a ripercorrere e raccontare i centocinquant'anni di unità è la voce di un detenuto, un "erbivoro", un ergastolano a cui (come altrove in Celestini) è stata diagnosticata una seminfermità mentale. Un io sconclusionato ma critico, che nella sospensione spazio temporale del carcere prova a tirare le fila di ciò che è stato, portando avanti un' analisi distaccata e dissacratoria. L'ossatura su cui si perdono le continue (ma spesso acute e puntuali) divagazioni narrative è un dialogo fallito con Giuseppe Mazzini, e la prova, insieme a lui, di un discorso agli italiani. Un discorso spesso interrotto dall'affiorare di personaggi ed episodi estranei al Risorgimento più moderato e accomodante, protagonisti che dal Mazzini "ufficiale" di vie e piazze italiane non possono essere raccontati. E non ci sono eroi, anzi: durante il cammino verso l'unificazione s'incontrano solo vittime di "un'inutile strage", ventenni o poco più morti ammazzati da una promessa non mantenuta. Pisacane, Orsini, Malatesta e i fratelli Bandiera: esponenti di un'attività rivoluzionaria cancellata (o smussata) dal revisionismo sabaudo, e che in Pro Patria provano a riemergere dalla loro damnatio memoriae di sconfitti. Continuamente incalzato dalla voce narrante, l'ideologo e cospiratore Mazzini diviene, con il suo silenzio sempre più pesante, simbolo di attendismo e inefficacia rivoluzionaria, freddo stratega sordo alle morti. Ma a fare i conti con il Risorgimento in chiave Celestini sono anche i rivoluzionari che hanno tradito la causa, Depetris, Crispi, Cairoli: padri della patria e di un trasformismo che avrà poi grande fortuna. Non si contano dentro il flusso narrativo le anticipazioni ottocentesche all'Italia che sarà: interessante è l'analogia tra la generazione risorgimentale e quella della contestazione, che si fa strada nel racconto e nella riflessione con un dissonante crescendo di prestiti lessicali. In fondo, i due movimenti sono entrambi espressione di una lotta armata, segnata da morti e sconfitte; una simile e radicale promessa di rinnovamento, che la memoria collettiva ha da sempre tenuto a distanza. "Siamo rivoluzionari, rivoluzionari sconfitti, ma pur sempre rivoluzionari", si legge in un passo del libro, e finito il furor giovanile per i rivoluzionari ci sono tre strade: la morte, il parlamento o la galera. E proprio quest'ultima, forse per l'urgenza del tema, si innesta e conduce parte del discorso. "Senza prigioni, senza processi": altre parole di Mazzini, altre parole disattese. La galera come cuore dello stato, insieme centro nevralgico e ultima periferia dei reietti reclusi in uno spazio disumanizzante. Il carcere è ed è stato incubatrice rivoluzionaria, quasi un privilegio per pochi, ma che nell'assottigliarsi della differenza tra dentro e fuori rischia di perdere la sua portata eversiva, facendosi inferno totale. Pro Patria va certo a inserirsi nei recenti dibattiti sull'affollamento delle carceri e su Italia 150, ma il tema fondante del libro è il sommerso, e la volontà civile (ed emotiva) di restituirgli, se non gloria patriottica, almeno memoria. Francesco Morgando
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