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Chi ha conosciuto Primo Levi de visu sa quant'egli fosse assai poco proclive a essere personaggio, mentre difendeva accanitamente, come un perimetro esistenziale e ontologico imprescindibile, il suo volere essere persona. In fondo, quel che in lui restava dell'esperienza d'Auschwitz era proprio questo disperato bisogno di rimanere uomo. Dopo di che, e in particolare dal momento della morte e poi a seguire, la sua figura ha subito un processo di canonizzazione laica che, complice anche l'ipertrofia alla quale oramai soggiace la memoria, alternativa al declino della storia come facoltà condivisa, fa sì che il suo nome sia noto a molti. A ben pensarci si tratta di un contrappasso, poiché siamo in presenza di un'icona senza volto. Questa dialettica negativa, ovvero questa scissione tra enfatizzazione morale (che traligna nella reificazione moralista) del lascito esperienziale e occultamento della concreta umanità del soggetto, sta alla base dello stesso statuto, in sé ambiguo, dell'uso pubblico del testimone, di cui Levi è stato, in vita sua, una delle espressione più alte e compiute. Philippe Mesnard, italianista e docente di letteratura comparata a Bruxelles, per lunghi anni è andato raccogliendo materiale fotografico sullo scrittore torinese. L'idea di fondo era quella di "dare corpo" a uomo che ha raccontato l'estinzione dei suoi contemporanei attraverso la loro smaterializzazione nei forni crematori. Ne è derivato una sorta di album biografico che di Levi ripercorre l'intera traiettoria esistenziale. Il racconto di Mesnard, poiché il genere al quale il libro sembra appartenere è ibrido, sospeso tra il saggio e il colloquio ininterrotto con l'uomo Levi, coglie la stratificazione della persona. A tratti, oseremmo dire, la tortuosità dello scrittore, al quale l'abito di testimone stava molto stretto, benché l'avesse indossato frequentemente e non necessariamente per bere un amaro calice. Claudio Vercelli
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