Oltre a spiegare perché e come la scrittura di questo libro si sia fatta strada nel corso del tempo, Marco Belpoliti, nelle Istruzioni per l'uso al suo monumentale Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015), dà carta bianca al lettore perché possa in totale libertà muoversi tra le varie parti di cui il saggio si compone ("la lettura discontinua è quella consigliata"), peraltro segnalate da caratteri e corpi differenti. Un "libro-Beaubourg" che esibisce tutti i materiali in possesso dello studioso e li mette a disposizione attraverso un argomentare rizomatico e non di rado ridondante. Ecco che, per esempio, a scorciare un efficace ritratto dello scrittore basterebbero da sole le paginette di commento alle dieci fotografie che lo ritraggono in diversi fasi della sua vita, chiosate da Belpoliti con il consueto acume; così come non meno fruttuosa potrebbe riuscire la lettura, non necessariamente in sequenza, di taluni cruciali lemmi rubricati, in una sezione a parte, in fondo a ciascun capitolo (lager, fantascienza, ibrido, scienza, chimica, lavoro, dolore, centauro, zona grigia, Torino, suicidio). Personalmente, non ho saputo resistere ad addentrarmi nell'universo leviano partendo da un dato: l'inossidabile predilezione dello scrittore per le "forme brevi", per la misura (economica) del narrare. Nel ripercorrere la storia testuale delle singole opere, Belpoliti insiste molto su questo aspetto: i racconti sono sempre presenti sin dal tempo dell'esordio testimoniale con Se questo è un uomo (1947). Le prime narrazioni che poi confluiranno in Storie naturali (1966) addirittura risalgono a prima della deportazione, a confermare una vocazione antica. Non stupisce perciò come Levi abbia pensato alla "forma-libro", da un certo punto in poi, come a un fascio di frammenti narrativi da tenere insieme, al massimo attraverso una cornice. Così sarà con le raccolte successive di Vizio di forma (1971) e Lilìt (1981). Così anche con i ventuno racconti de Il sistema periodico (1975), libro fondamentale in cui i moventi della sua ispirazione trovano un'equilibrata ricomposizione: d'impronta sì autobiografica, ma con dentro "tanti punti di fuga". Come a dire che l'input autobiografico non è mai fine a se stesso, ma giova a sperimentare, sul campo, la tensione conoscitiva connessa all'operazione del memorare e del raccontare. E che dire de La chiave a stella (1978)? Ancora una volta storie singole all'interno di una cornice, con il protagonista, il montatore di gru e tralicci Faussone, a incarnare l'ideale leviano dell'homo faber, profilando un'etica del lavoro che, in accordo con la scienza, non può che contemplare anche l'errore. Belpoliti, riconnettendo l'ispirazione fantastica del torinese alla tradizione della Scapigliatura e del realismo magico, parla per le sue narrazioni più in generale di "novelle", oltre che per la tendenza a perseguire la raccolta, a concepire cornici, per quell'impronta quasi pedagogica e rispondente al suo personale bisogno di ordine (da condividere con il lettore). L'allusione o il rimando esplicito all'esperienza concentrazionaria, tanto nelle storie fantabiologiche quanto nei retabli de Il sistema periodico, rimane sempre pressante, mettendo in campo tutto quanto è preceduto, tutto quanto è venuto dopo il più mostruoso "vizio di forma" che abbia messo a soqquadro l'universo morale della nostra civiltà. Come a dire che in Primo Levi il testimone e lo scrittore coesistono, epperò senza mai sovrapporsi. Siamo al tratto più riconoscibile e insieme discusso della sua fisionomia intellettuale, la sua natura centaurina di sopravvissuto e letterato, di chimico e scrittore, diviso tra forma mentis e pratica scientifica da una parte e necessità di mettere per iscritto le sue storie dall'altra: "Io sono un anfibio (
), un centauro (
.). Io sono diviso in due metà". Elemento di polarità che, come ha ricordato Belpoliti facendo eco alle indagini di Mengaldo sulla lingua e lo stile dell'autore, s'insinua anche nel suo dettato, fino a divenire il sintomo linguistico di quella che lo stesso Levi ebbe a definire in un'intervista la sua "spaccatura paranoica". Ibridazione che si estrinseca nel caratteristico e originale "pastiche plurimo" della sua prosa: quel "doppio movimento" (e ancora Mengaldo a suggerirlo), mix di classicismo e innovazione linguistica legata al suo primo mestiere. Va poi detto che Belpoliti insiste molto sullo stretto rapporto di Primo Levi con Italo Calvino: due autori imprescindibili non solo nell'autobiografia intellettuale dello studioso, ma soprattutto perché esponenti di una trascurata e invece importantissima linea di forza del campo letterario del secondo Novecento italiano, quella di una letteratura pensata come "filosofia naturale" (su scala cosmica per il ligure, ancora rivolta entro una "prospettiva umanistica" per Levi). Le storie fantabiologiche del primo e quelle cosmicomiche del secondo, spiazzano per quel rinunciare alla finzione tradizionale in favore di una inventio a trazione fortemente parodica (dimensione parodica che, almeno sulla carta, è il terreno sul quale i due tentano di addomesticare tic, nevrosi e paranoie). Levi scrittore dalla spiccata sensibilità sonora, Calvino autore visuale per antonomasia, prigionieri della loro coazione a ricomporre sulla pagina, a stilare referti, a ridisegnare mappe, sono parimenti impegnati in un'agonistica esigenza di dare ordine e forma al caos; e questo slancio rivela la loro autentica vocazione di moralisti. Domenico Calcaterra
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