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Quella di Prima che l’uragano arrivi, è molto più di una tipica, intricata crime story. È il definitivo tributo a una terra, la Louisiana, dove più che altrove si avverte un senso di tragica imminenza. Dove il ricordo di un’epoca in cui la mano dell’uomo esaltava la bellezza di una natura selvaggia, rende ancora più dolorosa la consapevolezza di un presente fatto di soprusi e abusi, ideale e inevitabile teatro per la furia devastatrice di Katrina. Burke ci prende per mano e ci porta lungo il Bayou Teche iniziandoci a questa America di altri tempi, inebriandoci con i colori gli odori e i sapori che fanno da sfondo alle dolorose vicende di una umanità varia e ricca di contraddizioni, dove l’odio razziale è ancora fortissimo e ogni spinta all’emancipazione è stata vanificata dalla diffusione del crack nei quartieri popolari. I personaggi che animano queste vicende non durano talvolta che lo spazio di una pagina e tuttavia possiedono un’umanità straordinaria che Burke gli conferisce dipingendo illuminanti squarci del loro passato. Perché Burke racconta il male certo, nella sua ineluttabilità e talvolta banalità, ma vuole credere che le persone siano migliori di quello che sembrano e che sono costrette ad essere. Così accade che uno spacciatore nero impartisca una lezione di morale a un benestante e rispettabile bianco. O che un poliziotto assista, ubriaco e impotente, all’assassinio di un collega. Gli assassini di (cui ci parla) Burke non sono sofisticati serial killer vanesi ma persone “che non hanno avuto la possibilità di scegliere il mondo in cui nascere” e le cui azioni sono a un tempo conseguenza di drammi sociali e causa scatenante di ulteriori conflitti. Per questo ci è difficile odiarli. Perché alla fine essi non sono che vittime a loro volta. Alla fine ciò che proviamo per loro è autentica compassione. Ed è questo il più grande merito di Burke.
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