Autore di importanti studi sul Cinquecento religioso che hanno profondamente modificato l'interpretazione del dissenso ereticale italiano e della sua penetrazione ai vertici della gerarchia ecclesiastica, Massimo Firpo, in questo suo nuovo densissimo libro, ricostruisce lo scontro politico, istituzionale e religioso che oppose Giulio III all'inquisizione, conclusosi con la "presa di potere" da parte dei cardinali del Sant'Ufficio che, tra alterni equilibri, avrebbe condizionato nei decenni successivi la storia della chiesa. Con uno stile narrativo incalzante consono ai ritmi convulsi di questa escalation motivata, spesso strumentalmente, dalla difesa della fede, ma di fatto finalizzata alla conquista del papato, vengono delineati i percorsi tortuosi, ambigui, carsici, di un disegno perseguito con tenacia, lucidità e spregiudicatezza fin dal conclave seguito alla morte di Paolo III Farnese (10 novembre 1549). Quel conclave, protrattosi per ottantanove giorni, mise in scena uno spettacolo senza precedenti: un candidato alla tiara, sostenuto da Carlo V, fu accusato di eresia dai colleghi. Accadde al cardinale inglese Reginald Pole che per un solo voto non divenne papa. Uomo pio e ansioso di riforme, Pole fu vittima dell'avversione di Gian Pietro Carafa, autorevole capo del Sant'Ufficio, che, pur di affossarne la candidatura, non esitò a scagliare contro di lui pesanti accuse di eresia, evocando persino l'esistenza di un processo a suo carico. "Un vero e proprio bluff", secondo Firpo, il quale dimostra come solo dopo quel conclave il porporato verrà sottoposto a serrate indagini. Ma un bluff sfruttato da molti elettori che, dietro al pretesto della tutela dell'ortodossia, celavano il timore di un ritorno, dopo l'austero Adriano VI di Utrecht, di un papa "forestiero", animato da forti aspirazioni riformatrici, incline ad alienare lo stato della chiesa e orientato a riassorbire il dissenso religioso con metodi persuasivi piuttosto che con la dura repressione. Elettori che celavano anche le proprie ambizioni al papato, assassinandosi "l'un l'altro come mortalissimi nemici", tra i quali ovviamente lo stesso accusatore, che fronteggiò a lungo, quanto invano, Pole. Pur essendo riuscito a imporre il suo veto e a inaugurare la tattica (destinata a lunga fortuna) di escludere i papabili a colpi di accuse di eresia, Carafa dovette cedere per allora il passo a Giovanni Maria Ciocchi Del Monte, eletto il 7 febbraio 1550. Uomo indeciso, screditato, digiuno di teologia, dedito a "darse bon tempo", tra cacce, gioco d'azzardo e banchetti, e incline a schivare i negotii, Giulio III rivelò tutta la sua debolezza nell'arginare il crescente potere del Sant'Ufficio. Diversamente da Paolo III (il quale, pur non potendo evitare che Carafa e colleghi accumulassero prove e indizi ai danni del Pole e della Ecclesia viterbiensis, era riuscito a bloccare l'avvio di processi) Del Monte dovette ingaggiare un vero e proprio braccio di ferro con il Sant'Ufficio perché non diventasse un centro di potere autonomo e incontrollabile. Egli prese vari provvedimenti per depotenziarlo, tra i quali il tassativo divieto di interrogare gli inquisiti sul conto dei membri del sacro collegio, non riuscì però a impedire l'uso spregiudicato delle indagini sotterranee risalenti alla metà degli anni '40 al fine di processare personaggi di alto rango della cerchia di Pole a Viterbo e di Valdés a Napoli. Fin dagli esordi del pontificato la contesa assunse dimensioni inusitate, come si evince dal parziale fallimento degli strenui sforzi di Giulio III per sottrarre al normale iter processuale Vittore Soranzo, vescovo di Bergamo, imputato di luteranesimo, e dalla sua replica agli attacchi del Carafa contro le sue ingerenze: "Mi pare che vogliate processare me et non il vescovo di Bergomo!". Pur riuscendo a ottenere che Soranzo fosse sottoposto ad abiura segreta e che mantenesse il titolo episcopale, il papa non poté impedire che fosse dichiarato "eretico confesso". Simili le sorti del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani e dell'arcivescovo di Otranto Pietro Antonio di Capua, entrambi "lutheranissimi", sottoposti alla purgazione canonica davanti al pontefice, ma di fatto a un'abiura segreta, con più gravi conseguenze sulla loro carriera in quanto le pressioni per il conferimento del cardinalato (per il primo, da parte di Venezia e, per il secondo, di Carlo V e dei Gonzaga) vennero bloccate dall'inquisizione, sicura che con la loro nomina "si faria nel collegio una setta di luterani, sendovene già alcuni dentro che non sono netta farina". Per queste vie il Sant'Ufficio riusciva a estendere il proprio potere anche sulle nomine cardinalizie. In questo clima rovente Giulio III cercò di spedire Carafa a Napoli, dove Paolo III l'aveva designato arcivescovo, ma avendogli Carlo V negato il placet considerandolo "deservidor" e fiero nemico del dominio spagnolo, fu sostituito da un vicario, l'accanito inquisitore Scipione Rebiba, che avviò una campagna repressiva contro i discepoli di Juan de Valdés, senza risparmiare esponenti della grande aristocrazia napoletana, estradandoli a decine verso le carceri romane, dove furono costretti ad abiure e purgazioni canoniche. Le pene comminate rispetto agli "errori enormissimi" di molti di loro furono però miti e per le divergenze politiche e religiose in seno al tribunale, e per il timore che la nobiltà napoletana insorgesse contro l'inquisizione. A rendere manifesta la spaccatura ai vertici della chiesa fu soprattutto il processo "più importante et scandaloso che fusse mai in Roma", quello del 1552 contro il domenicano Bernardo Bartoli, il quale accusò di eresia i cardinali Contarini, Pole, Morone, Badia e i loro seguaci, fornendo ai giudici materiale prezioso sul loro conto e costringendo Giulio III a imporre al frate una ritrattazione formale e a obbligare nell'aprile del 1553 Carafa a scusarsi con il Pole per il processo segreto avviato contro di lui in un colloquio decisamente "surreale" a San Paolo fuori le Mura. L'indiscutibile vittoria papale fu breve, come emerse chiaramente nel conclave del '55, dal quale, grazie all'esibizione, questa volta non fittizia, dei processi contro Morone e Pole, uscì eletto proprio il Carafa e poté avverarsi il suo sogno di "empiere le prigioni di cardinali e vescovi per conto dell'Inquisitione". Lo scontro tra papato e Sant'Ufficio coinvolse anche i domenicani, tutt'altro che compatti nella difesa dell'ortodossia. Pagine di grande interesse aprono un inedito squarcio sulle divisioni interne all'ordine tra sostenitori della linea inquisitoriale e frati dotati di "spirito di moderazione, disponibilità al compromesso, attenzione alle esigenze politiche", allineati sulle posizioni di Giulio III che cercarono di assecondare anche con mezzi ambigui. Intimamente intrecciata alla corsa al papato, la lotta antiereticale mise inoltre in luce divergenze profonde tra gli stessi cardinali del Sant'Ufficio. Prova ne è il doppio gioco condotto dal cardinale inquisitore Marcello Cervini, che, per assicurarsi l'appoggio di Pole e Morone a scapito di Carafa nel conclave che si sarebbe aperto alla morte di Giulio III, finse di ergersi a loro protettore, mentre sotterraneamente lavorava a delegittimarli sul piano dottrinale per escluderli dal novero dei papabili. Seguendo astutamente una strategia alternativa e indipendente rispetto al tribunale, fondata sulla disponibilità alla mitezza in cambio della delazione, entrò in possesso di materiali probatori contro Pole e Morone e li utilizzò in maniera a dir poco disinvolta. Solo nel 1552, quando capì che il gioco si faceva sempre più rischioso e che la rinuncia a muoversi in competizione con la Congregazione sarebbe stata più remunerativa, rientrò nei ranghi, ottenendo come ricompensa il papato, seppure per sole tre settimane. Con la conquista della tiara nel 1555 da parte di Marcello II Cervini e poi di Paolo IV Carafa si realizzò quella simbiosi tra papato e Sant'Ufficio, che Pole, Morone e i loro sodali, per le loro contraddizioni dottrinali e i loro evanescenti disegni politici, non seppero contrastare. Presentate con straordinaria efficacia da Firpo nella loro fitta sequenza cronologica, le vicende all'origine di questa svolta cruciale ‒ che inaugurava una lunga stagione nella quale a dettare gli orientamenti politici, religiosi ed ecclesiologici della chiesa sarà il Sant'Ufficio ‒ mettono in risalto in maniera incisiva la lungimiranza e la coerenza del progetto eversivo a esse sotteso e illuminano di una luce sconcertante l'agire di prelati e porporati dediti a ogni sorta di intrighi e di manovre pur di attuarlo. Gigliola Fragnito
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