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straordinaria la riflessione sull'haiku: da mettere in relazione alla fotografia.
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In un'epoca in cui qualunque editore ragionevole farebbe davvero di tutto pur di non pubblicare testi di critica letteraria, la casa editrice Mimesis decide di offrire ai lettori italiani gli appunti degli ultimi due corsi tenuti da Roland Barthes al Collège de France. Possiamo ora leggere in questa Preparazione del romanzo, tradotta e curata con amorosa precisione, quanto Roland Barthes fissò sulla carta e utilizzò in lezioni memorabili in un periodo che va dal dicembre 1978 al febbraio 1980. Come una delle curatrici non manca di precisare, due giorni dopo l'ultima lezione, Roland Barthes viene investito da un'auto (muore il 26 marzo). Il lettore di questo testo si trova tra le mani il resoconto di lezioni favolose: ai continui affioramenti di idee e citazioni brillanti si affianca una vera e propria libido docendi, nonostante un avvio in tono minore che alla fine si rivela un ottimo inizio per questo lungo romanzo, scritto e parlato, su quello che è necessario fare per dedicarsi alla stesura di un romanzo.
Giunto nel mezzo del cammino di sua vita, così narra il docente scrivente, colpito da un grave lutto, l'eroe di questo racconto si trova davanti a un insabbiamento: rituali pronti a divenire meccaniche repliche, divisi equamente tra scrittura critica e didattica letteraria, sembrano aspettarlo al varco, rituali ormai privi di investimento affettivo che dovrebbero accompagnarlo quietamente alla pensione. Se il desiderio di scrivere (e di insegnare) è quasi svanito, non resta che scrivere (e insegnare) attorno a quella pulsione che è il "Voler-Scrivere". Barthes allestisce dunque un poderoso dittico sul fantasma del Voler-Scrivere, fantasma da intendere in senso strettamente psicoanalitico, come scenario composto da un soggetto (che è l'io) e da un oggetto, uniti da una relazione che produce piacere. La mossa consente a Barthes di non escludere dal discorso (didattico e critico) la propria impasse esistenziale, di parlare di due opere che ama la Recherche di Proust e l'haiku, il "suo" haiku (ovvero l'haiku tradotto in francese in raccolte lette nel corso di una vita intera da un lettore che non conosce il giapponese) e addirittura di mettersi in gioco in prima persona, attraverso il "come se", calandosi nei panni di "colui che vuole scrivere", identificandosi e non paragonandosi, con gli eroi del Voler-Scrivere, Flaubert, Kafka e Proust su tutti. Nessun narcisismo ingenuo ovviamente, ma pura e semplice e inevitabile identificazione di un lettore delle opere di quei giganti del canone occidentale, identificazione sperimentata con impeccabile correttezza , trattando l'io come quell'altro che è, teste Freud et Lacan cum Rimbaud.
Se la presenza di Proust in un insieme di lezioni sul Voler-Scrivere va da sé, meno immediatamente comprensibile potrebbe riuscire il ritornare del discorso sull'haiku. Perché una lunga, mirabile fenomenologia dell'"entrata in scrittura" è preceduta da un altrettanto mirabile analisi dell'haiku, eseguita da un lettore ignaro del giapponese, con finalità "esistenziali" (il termine è di Barthes), al di fuori di ogni velleità filologica? Certo la spiegazione, diciamo così, narrativa non fa una piega; chi "entra in scrittura" deve piuttosto presto porsi la domanda: "Cosa scrivere? Cosa narrare?", ovvero: "Cosa annotare del mondo fenomenico?", e poi: "Cosa rielaborare in chiave romanzesca delle annotazioni contenute nei taccuini?". L'haiku è, per Barthes, l'arte della Notazione, al suo massimo splendore, e dunque, potrebbe costituire il miglior primo passo sulla via che porta all'Opera. Ma una visione così strumentale dell'haiku non avrebbe potuto probabilmente generare pagine tanto ricche di fascino. Il lettore, d'altra parte, non tarda a rimanere vittima di uno strano effetto di eco intertestuale: quelle lezioni sull'haiku sembrano un puntuale controcanto della Camera chiara, scritta peraltro in un paio di mesi, subito dopo la chiusura di questo corso. Le pagine sull'haiku si rivelano a poco a poco il lato letterario, se così si può dire, di quel capolavoro sulla fotografia che è la Camera chiara. "Comparazione dell'haiku e dello 'scossone mentale' (satori). → Si potrebbe anche dire: un (buon) haiku fa tilt → fa scattare, come unico commento possibile: 'È questo!' → Vorrei dire qualche parola su questo 'È questo!' (tilt) dell'haiku, dato che si oppone a delle attitudini occidentali e quindi fa riflettere su ciò che, per noi, è altro (
)apparizione brusca del referente nel cammino (della vita) e della parola nella frase".
L'haiku, la Notazione pura, assume qui le caratteristiche di una fotografia fatta con le parole. Forse una parabola zen, narrata dallo stesso Barthes in questo corso, può essere utilizzata come oroscopo: "In un primo momento: le montagne sono montagne; secondo momento (diciamo dell'iniziazione): le montagne non sono più montagne; terzo momento: le montagne ridivengono montagne → Si torna al principio, a spirale → Si potrebbe dire: primo momento: quello della Stupidità (ce n'è in ognuno di noi), momento della tautologia arrogante, anti-intellettualista, un soldo è un soldo, ecc.; secondo momento: quello dell'interpretazione; terzo momento: quello della naturalità, del Wu-shi, dell'haiku. Questo processo: in un certo senso, il ritorno della lettera". Il problema dell'ultimo Barthes sembra proprio il tentativo di riaprire i canali tra parola e referente che sembravano essersi seccati, quasi vene e arterie otturate e necrotizzate da eccessive dosi di metalinguaggio: ecco dove la foto e l'haiku sembrano trovare la loro più profonda ragione. Di questo ritorno del Reale, il riaffiorare dell'interesse per la biografia, dopo il radicalismo della Morte dell'autore (1968), non è che un episodio, come del resto la scelta preliminare di non "reprimere il soggetto": "Appartengo a una generazione", siamo alle prime battute della prima lezione, "che ha troppo sofferto la censura del soggetto".
Questi due corsi sono interamente costituiti da un protratto confronto tra "Album" e "Libro", assai più che tra "haiku" e "Proust". Due visioni del mondo tra le quali deve scegliere colui che vuole scrivere; uno degli aspetti del Voler-Scrivere, fantasmato forse prima di ogni altro, è la forma, e dunque la scelta tra Album e Libro avviene assai presto, a un livello più o meno cosciente. Il Libro prevede la fiducia in un universo, unificato, strutturato, gerarchizzato, di cui il Libro sarebbe appunto una rappresentazione; l'Album rappresenta un universo "non-uno, non gerarchizzato, sparpagliato, puro tessuto di contingenze". Ebbene, colui che ha spesso dichiarato di considerare la Recherche di Proust il Libro dei Libri, opta qui, qualora la scelta dovesse rivelarsi necessaria, per l'Album. "Se c'è lotta tra il Libro e l'Album, alla fine è l'Album a essere il più forte, è lui che resta"; non solo: "Ciò che vive in noi del Libro è l'Album: l'Album è il germe; il Libro, per quanto grandioso sia, non è che il soma". Non solo l'Album è l'inizio (sotto forma spesso di quaderni di annotazioni) dell'Opera (o, se si preferisce, Romanzo), ma ne è anche la fine; nella nostra memoria l'Opera sembra quasi rismontarsi nei suoi componenti essenziali: solo schegge, scene, flash dell'Opera si salvano dall'oblio. Riprendendo una dicotomia che risale agli scienziati greci, Barthes osserva che l'Album è il futuro, il "germe", la parte immortale dell'organismo, le cellule riproduttive, mentre il Romanzo è il "soma", la sua parte mortale. E davvero il lettore resta sorpreso dalle numerosissime dichiarazioni di fine della Letteratura che punteggiano il secondo corso: Proust, viene ripetuto quasi in ogni lezione, è l'ultimo scrittore dell'"Assoluto letterario". Il tema dell'"arcaismo" della letteratura, della sua "desuetudine", della poesia come "ciò che sta per morire", affiora ovunque in questa seconda serie di lezioni, mentre è, mi sembra, del tutto assente nella prima. Paradosso che si insinua surrettiziamente pagina dopo pagina: ravvisare negli haiku, componimenti dalle origini lontanissime nel tempo e nello spazio, una promessa di futuro, e forse addirittura una maggiore contemporaneità, una maggiore vicinanza spazio-temporale al docente, ai discenti e a noi lettori, rispetto alla Recherche, l'opera definita senza mezzi termini, in qualche luogo di questo libro, come la più alta del XX secolo.
Ciò che gli haiku (e le fotografie) sembrano assicurare è qualcosa che al linguaggio sembra sfuggire in eterno: il reale. Il reale resta lontano per il linguaggio, in un imprendibile orizzonte sempre alla stessa distanza dal viandante dallo scrittore che lo incalza. E, tuttavia, l'incontro tra la parola e la cosa, tra il segno e il referente, deve, a un certo momento, avvenire: senza oggetto è infatti impossibile il Desiderio, e, senza Desiderio, la scrittura come qualsiasi altro linguaggio artistico non può fare appello ad alcuna necessità. Se l'incontro avviene, si tratta di un incontro assolutamente individuale, di un accesso alla "Differenza", a ciò che differenzia una cosa da tutte le altre.
È, in altre parole, "il 'sale' della contingenza", come precisa Barthes parlando di haiku, quel sale inimitabile che racchiude il deteriorabile, il mortale. Perché "la 'verità' è nella differenza"; "non ci può essere una verità generale". Certo colui che tenne queste magnifiche lezioni avrà fatto propria l'affermazione di Sainte-Beuve citata da Proust (vertigine delle metacitazioni, se così si può dire, negata, paradossalmente, dal contenuto stesso della frase): "Per me la realtà è individuale". Ferdinando Amigoni
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