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Anno edizione: 2007
Anno edizione: 2014
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Con qualche debito verso T.Bernhard e R.Queneau, l'io narrante spariglia le carte dei luoghi comuni, diverte con le sue riflessioni paradossali! Belle le pagine sull'amicizia, feroci e veritiere quelle sui conformismi dell'umana narrazione (o commedia).
libro deludente, piatto e noioso. la ricerca linguistica e discorsiva dell'autore sembra girare a vuoto e giustificarsi di per sé stessa.
I pochi passaggi interessanti sono sufficienti per fare un articolo di due pagine, non un libro intero. Che è molto stiracchiato. Delusione.
Recensioni
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"Come di lavoro di preciso non lo so". Così due anni fa Ugo Cornia accompagnava l'incipit delle Pratiche del disgusto (il suo quarto libro dopo Sulla felicità a oltranza del 1999, Quasi amore del 2001 e Roma del 2004 ora come i precedenti pubblicato da Sellerio) sul numero 28 della rivista "il verri": che, intitolato Il libro a venire, invitava un certo numero di scrittori italiani a presentare i loro "lavori in corso". Con i compagni di strada del "Semplice" (Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati, Paolo Nori, Giampaolo Morelli, Aldo Gianolio e altri), sul quale esordì nel '96, Cornia condivide un atteggiamento anti-intellettuale, da "invaso dalla lingua" (come s'intitola un frammento di Novalis tradotto da Marianne Schneider sul primo numero della rivista), che rifugge all'idea di controllare la propria scrittura: "Sei in un ambito che se va bene puoi governare a metà, e anzi, secondo me non lo puoi governare per niente. Tra l'altro per me governare qualcun altro è sempre un po' vergognoso".
Ma, sotto queste apparenze dimesse e strampalate, sul "verri" Cornia esponeva con esattezza quello che, se non evidentemente un programma, è l'"umore" della sua scrittura: "Sto a spettare che passino in mezzo alla mia testa dei pensieri-frase che siano tali per me che alla fine li scrivo. Probabilmente devono essere anche delle frasi che si intonano con un qualche umore che ho già per i fatti miei perché mi sembra che sia soltanto una specie di umore che le tiene insieme". L'unità che i "narratori" specializzati come tali cercano nelle strutture, nelle forme-contenitore della scrittura è insomma data, in questo caso, dalla scrittura stessa: in Cornia, ancor più che nei suoi compagni di "Viva Voce" (il ciclo di seminari sulla lettura e sulla vocalità dal quale venne fuori "Il semplice"), una scrittura avvolgente, sinuosa e strascicata, accuratamente modellata sui modi dell'oralità: perfetto esempio, insomma, di quella che Giuseppe Antonelli ha definito di recente "lingua ipermedia". Che si dispiega in un flusso lieve e, insieme, irresistibile, evitando sempre di cristallizzarsi in forme codificate come il "romanzo" (continuava Cornia sul "verri": "Per me l'idea di fare un romanzo [
], cercando di tenere insieme qualcosa per tante pagine, mi sembra quasi qualcosa contro natura"). Diceva appunto Novalis: "La particolarità della lingua è proprio quella di occuparsi soltanto di se stessa, ed è un mistero meraviglioso e proficuo il fatto che, quando uno parla tanto per parlare, pronunci le verità più stupende e originali. Se invece vuole parlare di qualcosa di definito, la lingua, essendo capricciosa, gli fa dire la roba più ridicola o sbagliata".
Finisce così che questo Le pratiche del disgusto, che "parla tanto per parlare" (e non ha mancato di deludere, infatti, i critici sempre pronti a ricondurre ogni testo alla "narratività" dominante), risulti il più puro e radicale dei libri di Cornia. I precedenti infatti equilibravano la dirompente digressività che di queste premesse è naturale conseguenza con indici tematici che, seppur grossolani (la "morte" per Sulla felicità a oltranza, l'"amore" per Quasi amore, il "lavoro" per Roma), comunque consentivano di leggerli quasi come narrazioni tradizionali. Quasi, beninteso: perché in realtà, più che temi, anche quelli erano umori della scrittura.
Anche qui, certo, un tono base si può rintracciare: nel "disgusto"dichiarato dal titolo (per una certa tipa "sgarbata dentro", moglie di un amico o ex tale, che riassume nella sua "ignoranza individuale [
] l'ignoranza di tutta l'epoca"). Ma il testo subito si sfilaccia nelle infinite parentesi, nei continui "a parte", nei proponimenti subito abortiti di distogliersi dalla presenza maledetta del personaggio ostile. Al pari del sodale Nori (ma anche di narratori di ben diversa estrazione, quali Vitaliano Trevisan o Leonardo Pica Ciamarra) Cornia ha sicuramente guardato a uno scrittore la cui fortuna, presso molti dei nostri migliori contemporanei, oggi non teme confronti: Thomas Bernhard. Qui, poi, di Bernhard non c'è solo l'ossessività ma anche il suo oggetto più caratteristico: cioè appunto il disgusto che colloca il testo, ove proprio occorra etichettarlo, nella dimensione dell'invettiva. La cui iperbolicità non manca di destare i sali comici mai come qui stralunati e al limite della demenza che i lettori di Cornia ben conoscono.
Eppure il vero fascino di questo libro è altrove. Tanto è profondo il grumo di fastidio e umiliazione che questo si espande indefinitamente, irradiando a onde tutto il paesaggio circostante, come si trattasse di mefitiche esalazioni di qualche gas venefico. Il bislacco andamento "saggistico" di Cornia lo spiega così: "Nel tuo cervello si è depositata questa specie di sostrato umiliativo, la sostanza umiliante". Domina un bizzarro materialismo primitivo, nella visione pseudotrattatistica (di Manganelli Cornia con altri curò nel '97 per "Comix" una raccolta di pagine aforistiche) di chi sogna di comporre una "mappa esatta delle pratiche del disgusto", quasi da fisiologo presocratico. Come un Talete il quale si fosse convinto che non l'acqua ma appunto l'umiliazione sia la materia di cui è fatto l'intero universo (certo lo è, quello mentale di chi dice io). Tale principio universale non è però un assoluto, bensì un divenire. È quella che viene definita "spirale peggiorativa": "Le cose singole peggiorate offrono poi di rimando a qualsiasi individuo un nuovo panorama che è sia peggiorato che peggiorante, la grande sinergia ambientale del dominio del peggio come peggio puro, il peggio assoluto. E così via all'infinito".
Non si sbaglia ad avvertire una remota ma precisa eco leopardiana, in questa filosofia tascabile dell'infinito degrado, in questa visione cosmica di un secondo principio della termodinamica volto al mentale e si dica pure al morale. Non mancano più precisi riverberi delle Operette morali ("tutti noi siamo questa stessa pasta dell'universo rigirata in mille differenti modi"; "è venuta fuori tutta questa assuefazione generale [
] a questo non si sa che cosa che però ha proprio e soltanto questo grande funzionamento da galera"); ma più in generale Le pratiche del disgusto esemplifica a perfezione quella "linea leopardiana della prosa", esemplata nello Zibaldone, di cui ha parlato a varie riprese Celati: nella quale "il fraseggio si sviluppa per aggiunzioni continue di frasi appese e scandite da virgole, archi di frasi con ritorni all'indietro, ripetizioni avvolgenti, e un andamento aperto che spesso si perde in un 'eccetera'", il "fraseggio di chi pensa scrivendo: non mette in prosa blocchi di pensiero già pronti, ma insegue idee che si sviluppano man mano nel flusso delle parole" (cito da Leopardi compagno di strada, in Il fior fiore di Zibaldoni e altre meraviglie, a cura di Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio, Santoro, 2004). Una lingua audacemente non costruttiva, una dépense linguistica che altrove Celati ha paragonato alle Strutture dissipative di Ilya Prigogine. Traduzione materialmente linguistica, dunque, dell'universale degrado.
In virtù di questa felice e, c'è da pensare, perfettamente preterintenzionale coincidenza di tema profondo e umore linguistico, le pagine conclusive di Cornia (che tornano su un topos consunto come lo spleen domenicale) acquistano un respiro che forse non si esagera a definire tragico. O meglio, ilarotragico: "Per una vita non ho visto l'ora che queste mie domeniche finissero, con tutta quell'aria finta, totalmente al di fuori delle cose (
) è la domenica pomeriggio quella che ti terrorizza di più (
) quando uno va a farsi un giro nei parchi e vede della gente che ti sembra di camminare in mezzo a dei morenti che si aggirano sull'inerzia silenziosa della Terra, che va per la sua strada e gira intorno al Sole come negli ultimi 300 miliardi di anni".
Andrea Cortellessa
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