Paolo Mancini affronta in questo saggio un argomento largamente trattato nella letteratura delle scienze sociali le trasformazioni del partito politico e la sua supposta fine da una prospettiva sicuramente meno battuta ma non meno rilevante: quella dello studioso della comunicazione. Senza naturalmente pretendere di ignorare le cause altre (sociali, politiche, economiche) dei mutamenti della forma partito, Mancini si concentra sulle trasformazioni avvenute negli ultimi decenni nel campo delle tecnologie della comunicazione (l'avvento della televisione prima e di internet poi) e valuta il loro impatto sulle varie funzioni che i partiti erano soliti svolgere. Sullo sfondo delle grandi trasformazioni della società quali la secolarizzazione, la fine delle grandi narrazioni, la modernizzazione e l'individualizzazione e con particolare attenzione al caso italiano (visto come prototipo di questi mutamenti più che caso deviante) il saggio si fa strada attraverso le diverse trasformazioni che rendono il partito politico oggi ridondante. L'abbondanza informativa, precedente al web anche se sempre più marcata nella sua era, toglie ai partiti il monopolio di due funzioni strategiche in una situazione di scarsità informativa: quella di socializzazione e il ruolo di detentori e diffusori di informazione. Ma non si tratta solo delle funzioni cosiddette "espressive", anche quelle "procedurali", organizzative, sfuggono sempre più al partito per diventare appannaggio delle tecnologie della comunicazione, tramite organizzazioni post burocratiche basate sul web. La commercializzazione dei media porta inoltre a una sempre maggiore popolarizzazione degli stili politici, a cui i partiti si devono adattare per sopravvivere nel nuovo ambiente sempre più mediatizzato. La personalizzazione, infine, insieme al going public, alla volontà di scavalcare gli intermediari, porta a un appello diretto ai cittadini da parte di un leader che è soprattutto una singola persona. Oltre al punto di vista assunto e alla volontà di superare gli steccati disciplinari che contraddistinguono lo studio delle trasformazioni dei partiti, sono tre i punti di forza del saggio. Il primo è senza dubbio la (necessaria) rilettura di Bernard Manin, a vent'anni dalla prima edizione del suo seminale saggio. Se infatti la democrazia del pubblico è tale in quanto l'elettorato è visto come un pubblico di spettatori che reagisce alle sollecitazioni degli attori politici (sempre più spesso un attore politico, il leader) e non più come l'origine dei termini ai quali risponde, questo è ancora valido dopo l'avvento e la diffusione di massa di internet? L'intuizione di Mancini è che la democrazia del pubblico permane, accanto però a una dinamica diversa, di maggiore interattività e bidirezionalità, in cui il pubblico di massa è affiancato da nicchie attive e differenziate. Il secondo è che il saggio mette bene in luce una distinzione affatto scontata, soprattutto nel dibattito pubblico: quella, nei termini dell'autore, tra stile e ideologia populista. L'argomentazione ruota intorno alla descrizione di alcune congruenze tra quello che l'autore definisce "stile populista" e le trasformazioni della comunicazione politica verso personalizzazione, popolarizzazione e appello diretto ai cittadini, per cui diventerebbe quasi inevitabile per soggetti politici che non vogliano "andare contromano in autostrada" usare quello stile. Infine, la prospettiva non apocalittica dell'autore risulta finalizzata alla comprensione delle trasformazioni dei partiti senza mitizzarli e assumerli come realtà fisse e immutabili, ma al contrario considerandoli come costruzioni umane destinate a evolversi ed eventualmente a scomparire in relazione alle condizioni in cui si trovano a operare. Cecilia Biancalana
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