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Anno edizione: 1997
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"Una bella prosa morbida e intelligente, spiritosa e tenera. La dolcezza della voce è quella della memoria che si rimmerge e risale nel proprio passato, o in un passato fantastico, immaginato come proprio" ("Pietro Citati").
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
È il primo libro che ho letto si questa autrice e lo consiglio vivamente. Bellissimo
Le recensioni ufficiali, a mio avviso, sono scritte meglio di molti passi del libro. L'atmosfera del romanzo è effettivamente rarefatta, a tratti asfittica. Il tentativo di riecheggiare Elsa Morante, si risolve in qualche snobismo stilistico e tanta perplessità in chi legge.
Da leggere?
Recensioni
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recensione di Vittori, M.V., L'Indice 1997, n. 7
(recensione pubblicata per l'edizione del 1997)
Sembra che la scrittura di Elisabetta Rasy, attestata nei primi romanzi su atmosfere rarefatte, sia venuta acquistando l'attitudine a calarsi in situazioni più realistiche (era già avvenuto nei racconti di "Mezzi di trasporto", Garzanti, 1993), mantenendo nel contempo quella sua inconfondibile cifra espressiva che s'affida a impressioni volatili: profumi, bagliori, trasalimenti. Non era facile raccontare attraverso il tramite di una bambina, cercando di ricreare, per virtù di scrittura, quella "precisione carnale" con cui i bambini, del tutto naturalmente, arrivano al cuore delle cose. Elisabetta Rasy c'è riuscita: e il suo romanzo ha contorni fermi, limpidi e insieme evanescenti, come visti in sogno; è luminoso e insieme accerchiato dalle tenebre, terra fertile di ossimori come lo è Napoli, e ancor di più quel luogo incantato che risponde al nome di Posillipo.
A Napoli c'è la "casa-nave" in cui la bambina vive, negli anni cinquanta, insieme ai genitori - il padre, fascinosa figura di irregolare, la madre, donna irrequieta e forse infelice -, a una nonna dedita alla liturgia delle carte da gioco, a una quantità di parenti che vanno e vengono, come naufraghi che abbiano trovato un temporaneo riparo. La casa-nave è territorio affrancato dalle leggi comuni, dove convergono naufraghi d'ogni paese e dove l'unica lingua che non sia adibita a "comunicazioni di servizio" è il dialetto, "la voce stessa dell'essere", un lusso che la vita ancora può concedere a questi naufraghi (e infatti, con l'accentuarsi del fallimento e della disfatta, il dialetto sparirà dalla casa).
Nel clima intenso e pericolante della casa-nave - dove tutto può succedere da un momento all'altro - la bambina impara presto a riconoscere l'incanto dei sensi: incanto che trova in Fiammetta la sua vestale. Fiammetta ha lucidi capelli neri, occhi luttuosi e brillanti, Fiammetta esce da una storia di tenebre e ne porta in sé, incancellabile, l'alone: la sua oscurità è "perentoria", "incandescente".
Le due bambine si rivedono a Roma, entrambe esiliate, entrambe escluse dal placido limbo delle certezze familiari; la loro storia familiare, intarsiata di tagli, oblii, rimozioni, diventa ancor più ingombrante nello scabroso periodo dell'adolescenza. E anche quando il mistero di Fiammetta gradualmente si chiarirà - attraverso voci, sussurri, storie inverosimili narrate nelle lunghe notti insonni - non per questo verrà intaccato il sottile ma pervicace tenebrore di quest'adolescente, che vive la passione d'amore come se al mondo non ci fosse altro, non ci fosse mai stato altro. Naufraga sì, come la sua compagna, ma capace di ripudiare ogni casa-nave, ogni scialuppa di salvataggio, per annullarsi in un uomo, sbattere contro le rocce, farsi del male: nel corpo e nell'anima. Di grande intensità è quella scena in cui Fiammetta mostra all'amica le sue mutandine bianche con un'indecifrabile macchia: quasi "di petalo di fiore rosa schiacciato sull'asfalto".
È uno dei tanti simboli che attraversano la storia, che è di memoria familiare e di riti amorosi ma anche, e soprattutto, di rimandi e corrispondenze, proprio nell'accezione baudelairiana.
Basti pensare all'uso del colore: ci sono gli accordi quieti - la scena dell'incontro delle bambine in latteria, tutta giocata sulla mitezza del bianco e del celeste -; le macchie violente che saettano la scena - provengono, in ogni caso, da Fiammetta: il suo rossetto scarlatto, il bruno delle sue gambe -; le campiture che valgono a evocare il clima di una città: "l'infinità celeste" di Napoli, il giallo e il rosso bruno terrosi di Roma.
E talvolta capita che la suggestione evocativa del linguaggio, volta a ricreare frammenti del passato, lasci spazio a un gioioso vitalismo, annidato nell'immediatezza della percezione, come nella scena, bellissima, con qualcosa di pasoliniano, in cui si avvistano, dal treno, le prime case di Napoli: "Gli intonaci scrostati e sporchi di infima qualità, le geometriche ferite dei balconi, i muri crepati selvaggiamente sporchi, devastati da un terremoto perennemente sospeso nell'aria eppure perfette emanazioni di vita".
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