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“Il popolo che manca” è un mondo scomparso, un mondo di poveri fatto di miseria, di fame, di tribolazioni, di sopraffazioni, di superstizioni, un mondo che certamente non si può rimpiangere, ma è comunque un mondo di un’umanità differenziata da ammirare per le capacità di adattamento, per il coraggio di affrontare la realtà, per la socializzazione che non è quella evanescente di oggi. Ci sono capitoli interessanti ed altri meno. Quello sulle masche è molto ripetitivo e faticoso a leggersi, mentre ho trovato di grande interesse quelli sulle emigrazioni e sulla guerra. Il primo ci ricorda come un tempo eravamo noi, che per fuggire alla miseria, migravano, poveracci come tanta altra umanità, in America del Nord, in Argentina o in Australia affrontando viaggi lunghissimi e penosi, pericolosi. Il secondo ci racconta l’orrore della guerra attraverso le testimonianze di chi l’ha vissuta combattendo, un quadro vivido di episodi e situazioni orribili, con alcune “finestre” che mettono in risalto come quelli che sono nemici sull’uno e sull’altro fronte non sono altro che poveri che potrebbero e vorrebbero tranquillamente coesistere in pace. Un libro che dovrebbe essere letto a scuola.
testo che mi ha fatto capire di cosa erano capaci i nostri avi
C’era una volta, come nelle favole, ma qui di favola non si tratta, una vita imperniata sull’agricoltura, di gente che appena sopravviveva alle quotidiane tempeste di un destino ingrato e classista. I contadini, di cui ha raccolto numerose e variegate testimonianze Nuto Revelli, sono quelli della campagna piemontese, delle prospettive collinari del cuneese specialmente, gente sopravvissuta e che racconta come era un certo mondo nemmeno tanto tempo fa. A parlarcene in Il popolo che manca sono i diretti interessati, superstiti di un mondo che si stenta a credere possa essere esistito. Sono storie di miseria, di quella nera, dei bambini che non hanno un’infanzia, perché già subito chiamati a un lavoro estremamente disagiato; sono episodi rammentati e che vengono svelati nei tormenti dei ricordi di cui rari sono quelli buoni, quelli che ancora muovono al sorriso chi li ha estratti dai reconditi antri della memoria. Un’umanità dolente popola queste pagine in cui nulla sfugge, nessun aspetto di una vita quasi da inferno viene taciuto. Non c’è enfasi nella narrazione di chi parla di se stesso e del suo passato, non c’è nemmeno un’inclinazione a un vagheggiato eroismo, resta solo la consapevolezza di essere appartenuti a una società atavica, perennemente immobile, poi di colpo cancellata da un progresso dirompente. Eppure, nel tono di chi ricorda c’è una sottile vena di rimpianto per un’età che, se d’oro non è mai stata, però aveva una caratteristica ormai desueta: la solidarietà; e la solidarietà fra poveri vuol dire anche donare quello che non si possiede dalla nascita, ma che la durezza della vita ha fatto sorgere: la pietà per se stessi da cui nasce la disponibilità ad aiutare gli altri. Il popolo che manca è semplicemente bello, è uno di quei libri che si leggono facilmente e volentieri e che fanno capire quanto la nostra opulenta società sia debitrice di un passato che reclama almeno il ricordo.
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