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La politica della linguistica della Rivoluzione francese - Lorenzo Renzi - copertina
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La politica della linguistica della Rivoluzione francese - Lorenzo Renzi - copertina

Dettagli

1981
1 gennaio 1981
208 p.
9788820710453

Voce della critica


recensione di Cases, C., L'Indice 1984, n. 2

Il libro, uscito in un momento in cui ferveva la polemica sulle "lingue tagliate", che trattava in modo solo apparentemente indiretto, proponendo soluzioni più equilibrate, avrebbe dovuto suscitare qualche scalpore. Ebbe invece il destino di molti libri che escono di proposito dalla specializzazione: i competenti li snobbano e per gli incompetenti sono pur sempre troppo specialistici, sicché non hanno il coraggio di parlarne. Qui lo stesso autore veniva incontro a tali remore dichiarando all'inizio che il libro era "l'opera di qualcuno che per scriverlo si è dovuto informare su certi argomenti partendo da zero o quasi: cioè l'opera d'un incompetente". In realtà l'autore la competenza se l'era procurata dappertutto, nonostante la varietà dei temi trattati, che determina una struttura talora poco perspicua, con ripetizioni e ricorsi, parentesi, digressioni e appendici. Ma i libri che filano lisci come l'olio passano nel cervello senza lasciar tracce. Tutt'al più la dichiarazione d'incompetenza dell'autore può servire a ribadire quella del recensore, il quale perciò si guarderà bene dal prendere posizione sulle critiche mosse al Renzi da Sebastiano Vecchio nel suo pregevole volume "II circuito semiotico e la politica. Linguaggio, nazione e popolo nella Rivoluzione francese" (Galatea, Acireale 1982), cui si rimandano gli interessati a integrazione di quello del Renzi.
Di minoranze linguistiche è difficile parlare prima della Rivoluzione francese, in quanto allora ognuno parlava e scriveva la lingua che voleva. È la politica linguistica dei giacobini che privilegia la lingua "nazionale" declassando ogni altra espressione linguistica. Si dirà che l'operazione del taglio delle lingue, secondo i suoi teorici (da noi soprattutto il Salvi), era già cominciata prima, e più precisamente nel 1229, quando Simon de Montfort con la crociata contro gli Albigesi distrusse in nome del re di Francia la fiorente civiltà occitanica e la sua lingua. Senonché Renzi, che qui non ha bisogno di ricerche proprie ma si limita a utilizzare studi solidissimi ignorati dagli accusatori della "glottofagia", mostra che questa è una leggenda e non può non esser tale "a priori", in quanto parte da un presupposto moderno - la volontà di intervenire attivamente sull'uso della lingua - che si ha appunto solo a partire dai giacobini e che era inconcepibile nel medioevo. Simon de Montfort avrà ammazzato migliaia di eretici o presunti tali, ma non ha imposto a nessuno con la spada alla gola di parlare francese, in una specie di Vespri siciliani alla rovescia. L'arretramento dell'occitanico avviene nel corso di lunghi secoli. Si considera determinante l'editto di Villers Cotteret, emanato da Francesco I nel 1539, perché rende obbligatorio l'uso della "lingua materna francese" nei documenti ufficiali. Ma il provvedimento era in realtà diretto contro il latino, non contro l'occitanico, ed è probabile che l'espressione "lingua materna francese" comprendesse anche quest'ultimo. Solo verso il 1600 un commentatore lo interpreta nel senso della proibizione della lingua del Mezzogiorno, ma questa negli anni intercorsi aveva avuto un forte regresso e il commentatore non faceva altro che sanzionarlo. Dispiace per i suoi "fans" - anche Renzi ha simpatia per i cantautori occitanici -, ma questo regresso non era dovuto a violenze di sorta, bensì alla sensazione di parlare un linguaggio "basso" rispetto a quello "alto" della corte, della burocrazia e delle classi elevate in generale, e al desiderio di adeguarsi a quest'ultimo.
Bisogna quindi giungere ai giacobini per vedere teorizzata una violenza linguistica almeno potenziale. Con essi chi non parla la "lingua della nazione" è sospetto di mettersi al di fuori di questa, di essere un nemico della patria e della rivoluzione. Il dialetto diventa l'organo della Vandea. L'ideologo di questa concezione politico-linguistica è un personaggio straordinario, l'abate Grégoire (1750-1831), un prete "costituzionale" rimasto religiosissimo in cui l'universalismo rivoluzionario s'innesta su quello cristiano e il cui nome si ritrova nella fondazione teorica dei grandi atti di emancipazione della Convenzione (quella degli ebrei e dei negri).
Rispettato anche dagli avversari, dopo il Termidoro rimase fedele alle sue idee e respinse le profferte di Napoleone. Stendhal lo chiamò "il più onesto degli uomini". Nel 1790 Grégoire invia a diversi corrispondenti in tutta la Francia un questionario sull'uso dei dialetti. Renzi ha studiato questo questionario, le risposte relative, uno scritto di autoriflessione di Grégoire e la sua relazione alla Convenzione (1794). Una profonda fiducia egualitaria anima tutto questo materiale: i francesi devono parlare tutti la stessa lingua perché siano veramente eguali e egualmente in grado di partecipare alla cosa pubblica. L'ostacolo è la presenza dei dialetti, considerati linguaggi "imperfetti", di seconda qualità, forse coloriti ma incapaci di rendere idee astratte e soprattutto atti a fomentare la divisione e la difficoltà d'intendersi in seno al popolo. Nel questionario si parla dell'"importanza religiosa e politica di distruggere interamente il dialetto". La voce dell'eccellente abate suona minacciosa, n‚ egli era più tenero con le lingue minoritarie (tedesco in Alsazia, italiano a Nizza e in Savoia) che in Francia secondo lui apparivano in forma "degenerata", ma evidentemente imprescindibile, perché la Convenzione fa tradurre in italiano (Renzi, riporta la traduzione in appendice) ad uso di quelle popolazioni la relazione di Grégoire in cui si preannuncia il loro sterminio linguistico!
Se infatti Grégoire e la Convenzione non pensavano affatto a esercitare la violenza e si limitavano a voler introdurre l'insegnamento obbligatorio del francese, è certo che le loro idee si prestavano a fondare una politica di repressione e di colonizzazione linguistica. Renzi dà l'esempio per noi scottante della politica fascista in Sudtirolo, con il divieto dell'uso del tedesco nei tribunali, negli atti ufficiali, nelle scuole e nei giornali e con l'introduzione di toponimi italiani e ladini, quasi sempre fuori uso o tradotti o inventati, al posto di quelli tedeschi: a questo lavoro si applicò con pazienza da certosino, riscrivendo la carta geografica, lo studioso trentino Tolomei. L'attuale situazione tendente al bilinguismo ha eliminato la maggior parte di queste assurdità. Nei toponomi però anche il bilinguismo sembra insensato, salvo nei casi (tipo Merano, Bolzano, Bressanone ecc.) in cui esso ha veramente una tradizione. L'operato di Tolomei è stato sentito dalla popolazione tedesca come un trauma, frequentemente trattato anche in opere letterarie. Nemmeno a Giuseppe II, che J.P.Taylor (citato da Renzi) definiva "la Convenzione in un singolo uomo", sarebbe mai venuto in mente di ribattezzare i suoi possedimenti italiani chiamando Gorgonzola Gorguntzel o Casalpusterlengo Pusterlingsheim (anche se qui dopo tutto si poteva risalire ai longobardi). Personalmente non capisco perché nel Sudtirolo non si sia fatto come in Val d'Aosta, dove dopo la guerra i Valdigna e i Cortemaggiore inventati dal fascismo hanno semplicemente ripreso i loro nomi di Morgex e Courmayeur. Dite che i toponimi tedeschi sarebbero storpiati dalle bocche italiane è un pretesto inconsistente; non si vede davvero perché Sterzing o Seis siano più difficili da pronunciare di Morgex o Arnaz.
Come mai il giacobinismo linguistico nel corso dell'Ottocento ha perso la sua carica democratica ed è diventato uno strumento del nazionalismo di destra? E si può in generale, in questi casi, parlare di giacobinismo? II Vecchio rimprovera a Renzi di avere collegato tra loro due problemi che andavano considerati distintamente: quello del giacobinismo propriamente detto e della sua offensiva antidialettale e quello delle minoranze linguistiche. È probabile che abbia ragione da un punto di vista metodologico, quantunque, come abbiamo visto il secondo problema non sia stato ignorato dai giacobini. Inoltre, attraverso questa forzatura, Renzi vuole arrivare alla questione, che gli sta a cuore, delle odierne rivendicazioni minoritarie, e definisce - perfino in forma tabellare - un fenomeno generale di inversione dei motivi della destra e della sinistra linguistica: centralismo linguistico e lotta ai dialetti sono diventati appannaggio della prima, mentre la seconda rivendica l'ambiente immediato, la comunità e il suo linguaggio "naturale" contro l'egemonia statale e la dittatura del capitalismo. La Vandea è andata a sinistra. Ma il processo di tale inversione rimane poco chiaro, esso andrebbe cercato nella dialettica interna di una borghesia che contiene in sé fin da principio gli elementi della negazione della propria funzione rivoluzionaria. Nel libro di Chabod sull' "Idea di nazione", spesso citato da Renzi, questa era considerata, sulla scorta del pensiero crociano, come un prodotto del preromanticismo e del romanticismo: dei giacobini non si parlava. Qui é l'inverso: sembra che dai giacobini si passi direttamente alla situazione attuale, opposta, con un salto che appare irrazionale. Ma Renzi cerca una mediazione: dei giacobini accetta la necessità di una politica linguistica che favorisca tendenze già in atto e ripudia il tentativo di ammazzare di dialetti (e naturalmente le lingue minoritarie); della nuova sinistra linguistica apprezza lo sforzo di salvare e potenziare ciò che si mostra vitale, non tutto l'esistente in quanto tale, poiché "se constatiamo la sparizione di una lingua non abbiamo ancora la prova che sia stata assassinata. Può essere anche morta nel letto". Inutile quindi cercare la violenza là dove non c'è (o ce n'è poca) a rischio che ciò serva a chiudere gli occhi sulla violenza macroscopica che ci circonda. Indicazioni che non bastano a definire la difficile e forse impossibile conciliazione di particolare e universale, ma aiutano a fare quel che solo si può fare: adoperarsi contro le prevaricazioni dell'uno e dell'altro.

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Conosci l'autore

Lorenzo Renzi

Lorenzo Renzi (Vicenza, 1939), linguista e filologo, e` accademico della Crusca ed e` stato professore di Filologia romanza all’Universita` di Padova. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Le conseguenze di un bacio (il Mulino, 2007), Come cambia la lingua (il Mulino, 2012) e il Manuale di linguistica e filologia romanza (il Mulino, 2015; con Alvise Andreose). Per il Saggiatore ha curato l’edizione di Lettere di prigionieri di guerra italiani di Leo Spitzer (2016). 

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