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A volte sono poesie lunghe, altre notevolmente brevi, tanto da sembrare dei frammenti e si avverte chiaro che sono state scritte in epoche diverse, ma quello che è lo stile, per nulla aulico, anzi stringato – ma non per questo meno piacevole – è quello e probabilmente sarebbe stato quello, se il destino benignamente gli avesse permesso di vivere, fra trent’anni, magari un po’ più sfumato, ma pur sempre incisivo. Mi si potrà obiettare che comincio a parlare dell’opera con la forma e non è un caso però, poiché la forma è sì una modalità di espressione, ma in questa raccolta è parte stessa del costrutto, del discorso che si vuole sviscerare, della sostanza a cui si tende. Versi brevi, a volte quasi raffiche, sospensioni, arresti improvvisi, ma seguiti da tre punti che avvertono che il discorso non è cessato, ma prosegue nei sottintesi. Certo, diverse poesie non nella stessa epoca comportano anche una tematica varia, ma a me quello che pare evidente è che il filo conduttore è la ricerca delle risposte a tante domande essenziali: perché vivo, dove vado, che senso ha il mio essere qui? Quesiti che non sono infrequenti, ma che in genere un giovane, a meno che non sia particolarmente maturo, di certo non si pone. E invece Antonio è quasi assillato da queste domande, cerca una risposta che ognuno crede di trovare, ma che non è mai quella giusta, e lui invece probabilmente ci azzecca. Tende, sovente in modo pudico, a quel livello che generalmente chiudiamo in un vocabolo che desta stupore: l’assoluto. Si rende conto, cioè, che la terra imprigiona troppo, che l’uomo per sentirsi libero e realizzato deve avere una visione non principalmente materialistica, e questo tentativo di librarsi porta non di rado a composizioni che hanno il notevole pregio di infondere grande serenità nel lettore. La sua non è semplice poesia, è qualcosa che viene dal più profondo, è un canto, il canto dell’anima.
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