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Lieve e nondimeno intensa la lirica di Erika Burkart, quasi sconosciuta in Italia, sorprende per la qualità squisitamente pittorica delle immagini. L'autrice svizzera dà voce a una profonda inquietudine spirituale, dipingendo con sfumature impressionistiche paesaggi silenti, malinconici, non di rado avvolti da bruma nordica. È così che l'antica tradizione dell'idillio elvetico - resa famosa già nel Settecento da Salomon Gessner e Maler Müller - rifiorisce arricchendosi di fratture e contrasti. Alla tendenza contemplativa si accompagna oggi il bisogno di riflettere sul male di vivere per riscoprire il valore dell'esistenza nel contatto con una natura minacciata dall'umanitùà. Non meraviglia dunque che siano dolore e sofferenza a dominare versi di grande immediatezza e semplicità espressiva, ottimamente resi nella traduzione italiana.
La scrittura, nitida senza ricadere nell'ingenuo, evita il manierismo sentimentale per accostarsi a un silenzio che è tensione religiosa all'ascolto. E religioso è certo il raccoglimento che consente al singolo di immergersi in un ritmo cosmico lento, inesorabile e soprattutto inconoscibile: "Se pur smarrita la stella / terra una sfera esoterica. / Sia l'azzurro, disse Dio e fu / il mistero che lo avvolge. // Nero è il Tutto, / ma azzurra la leggenda che ne parla. / Fra le ceneri dell'azzurro avanza Orione, / lo seguiamo con lo sguardo, ne abbiamo sete. // Vasi azzurri. / Lo vorrebbero ghermire, / raggiungere nel cosmo e attingere, / come se, amata, la luce / prendesse corpo".
Burkart tende verso un genere di descrittività che si serve di un procedimento sinestetico, teso a stimolare l'intera sfera delle percezioni sensoriali. Luci, ombre, forme, colori e suoni attraggono il soggetto provocando una sorta di ansia conoscitiva. E da questa ansia scaturisce il desiderio di superare i limiti del già noto allo scopo non di capire, ma più semplicemente di abbracciare per un istante il mistero della creazione. Lasciarsi andare al flusso della vita permette infatti di provare emozioni forti, che non servono a ricomporre le lacerazioni dell'io ma spingono a una relazione con il prossimo e dunque ad accettare la realtà. Non a caso la scrittrice - donna mite, sensibile, per nulla incline allo scoramento - dedica alla partecipazione una splendida lirica che, oltre all'attitudine francescana verso la natura, rende palese l'esigenza di andare incontro all'altro per non arrendersi a una solitudine insopportabile: "A chi potrò dire che di notte / la paura mi coglie al brillìo di antiche stelle / e smarrita mi sento perché oggi è un giorno / che da più di mille anni è spento".
L'angoscia non cede il passo, si alterna semmai a una ricerca d'amore che assume carattere ecumenico, senza rinunciare tuttavia all'intensità del rapporto di coppia. L'apostrofe fraterna a piante e animali si unisce allora al vagheggiamento di un compagno che, rimanendo figura indefinita, infonde speranza con la sola forza dell'immaginazione. Utopico si rivela il percorso di una poesia che sovente tratteggia uccelli dalle ali mozzate, per simboleggiare il volo impossibile, eppure agognato verso spazi infiniti, appena immaginati. Sicché il discorso riconduce sempre al quotidiano, raccontando con notevole trasporto inconfessate esperienze intime destinate a coinvolgere il lettore. Attenta risulta la scelta della curatrice che, noncurante della successione cronologica, lascia la parola a una poesia ricca di risvolti spesso inattesi.
Maria Grazia Nicolosi
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