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Contenuto: Eros Alesi, Dario Bellezza, Mariella Bettarini, Patrizia Cavalli, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Alberto Di Raco, Fabio Doplicher, Vivian Lamarque, Attilio Lolini, Angelo Lumelli, Giorgio Manacorda, Dacia Marami, Renato Minore, Franco Montesanti, Nico Orengo, Renzo Paris, Elio Pecora, Paolo Prestigiacomo, Gregorio Scalise, Adriano Spatola, Sebastiano Vassalli, Cesare Viviani, Valentino Zeichen. Prefazioni di Alba Donati, Paolo Febbraro, Roberto Galaverni, Matteo Marchesini, Emanuele Trevi. Mai sentiti nominare? Dei poeti menzionati ne conoscete solo alcuni e vorreste colmare le vostre lacune? Allora questa è l'antologia critica che fa per voi. Ricca di molteplici interpretazioni e note introduttive, ''Il pubblico della poesia'' ha mietuto consensi tra gli addetti ai lavori e ora è arrivato il momento di farla apprezzare dal grande pubblico. Tipologia lettore: sopraffino.
Troppe discettazioni si dimenticano di trattare la poesia come "genere". Non comprendo le chiacchiere dotte e sprecate di chi adduce argomentazioni per salvare le sperimentazioni, non sempre felici, di generi nuovi, dimostrando quasi di non sapere di che va parlando... Che significa prosa in poesia e poesia in prosa? La poesia, come qualità universale, è possibile con qualunque strumento: certe pagine di grandi prosatori hanno ben più poesia di mille squallide versificazioni, pedantemente rispettose della metrica canonica. Il "neo-barocco trionfante", borioso di cervellotiche trovate linguistiche, scritto andando a capo a piacere, è squallido come il barocco di Artale e compagni, rigorosamente ligio al corredo completo della tradizione metrica. L'aspetto deleterio del moderno poetare sta nel facile "vertere", senza passo e senza gusto, nella pratica di una prosa spezzettata che, sotto le spoglie di moderno poetare, a troppi dà l'illusione di essere grandi scrittori. Non ce la raccontiamo: ognuno scriva come vuole e faccia della poesia (se ci riesce), ma non venga a millantare di scrivere in poesia: perché questa è un genere che quasi nessuno più frequenta. La prosa, il poema in prosa, la prosa poetica, sono altri generi, magari pieni di poesia, ma non sono più "poesia-genere". Mi pare che sia ora di capirlo!
L'autore con ogni evidenza odia la letteratura a causa del suo infaticabile senso di superiorità (snobismo?)
Recensioni
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recensione di Frabotta, B., L'Indice 1994, n.11
Nel corso degli anni ottanta mi era capitato di leggere molti dei saggi che ora Alfonso Berardinelli, dopo una profonda rielaborazione, raccoglie nel volume "La poesia verso la prosa". Altri interventi sono invece inediti, ma in generale si tratta di una lettura non nuova per chi conosca le idee di un autore che, disdegnando ogni approccio accademico o puramente teorico allo studio della poesia, preferisce vestire i panni più leggeri e maneggevoli della riflessione in prosa, a metà fra l'appunto di lettura, sobrio e persuasivo e la 'verve' del polemista. Berardinelli scrive con la disinvoltura di un comparatista anglosassone che non sa però liberarsi dall'ansia sistematica e catalogatrice di un pensatore tedesco. Tra i suoi modelli più corteggiati ci sono Debenedetti e Wilson, ma anche Benjamin, Adorno, Enzensberger. Almeno questa è la qualità della merce dichiarata: una saggistica divagante ma razionale, aliena da ogni eccedenza o frivolezza "francese" e soprattutto libera dalla camicia di forza di una metodologia troppo riconoscibile. Berardinelli tiene soprattutto alla chiarezza e alla finitezza del suo discorso e niente lo disturba come un indifferenziato culto della scrittura intesa, alla maniera di Blanchot, come "infinito intrattenimento". È certo questa una buona scuola e dico subito che gli esiti migliori del libro si incontrano là dove il lettore. quasi occasionale nel suo 'understatement', esercita la sua intelligente comprensione verso poeti pure assai diversi fra loro. Come il vero buongustaio, mai troppo affezionato ai pregi di una sola tradizione culinaria, Berardinelli scrive pagine assai belle su Penna e Giudici, come su Zanzotto e Rosselli. Il suo è un itinerario più tematico che linguistico e, dal momento che gli riesce più agevole ascoltare la voce dei poeti quando gli pare più inclinata alle argomentazioni della prosa, anche un saggio benjaminiano come quello intitolato "Città visibili nella poesia moderna" è da ascrivere ai suoi risultati migliori. Ma è proprio qui che, almeno per me, cominciano i guai di volenterosa lettrice.
Nelle prime due parti del libro Berardinelli, dopo aver dichiarato 'forfait' dinanzi al problema estetico della definizione dei confini della poesia, si propone di difendere la seguente tesi. Intanto non è affatto vero che la poesia moderna coincida con la lirica pura che, affondando le sue radici in Mallarmé, prosegue attraverso Valéry, fino alla tautologica astrazione dell'avanguardia postmoderna, dai poeti di Tel Quel, per intenderci, ai Novissimi italiani. È altresì sbagliato leggere Baudelaire come precursore della lirica pura e la stessa malinconica classicità dei suoi poemetti in prosa sta a dimostrare che la sua poesia, accanto all'esperienza pure multiforme di Whittman, ha consegnato al Novecento un'eredità ottocentesca che non ha nulla a che vedere con la futura egemonia simbolista ed ermetica. I poeti verso i quali Berardinelli spende il suo fervore apologetico sono giganti che nessuno si sognerebbe di scalzare dal loro piedistallo, se non per esercitare la tirannia di un gusto arbitrario, trattandosi di Eliot, Brecht, Auden, Machado e altri simili. Non a caso Berardinelli elegge a testa di turco "La struttura della lirica moderna" di Hugo Friedrich, un vecchio testo del 1956 che la stessa storia della poesia contemporanea si è incaricata di confutare nel suo monismo semplificatore. Non c'è dubbio che Berardinelli legga i nostri migliori poeti con la testa volta polemicamente all'Ottocento e ai suoi presupposti schilleriani, rivisti con la passione di una disperata inattualità.
Intendiamoci; non c'è nulla di male nella sua robusta predicazione di una poesia che non si rassegni a tagliare i ponti con la storia e con la filosofia e che si ostini a volersi maestra di vita e di etica, pena la sua stessa sopravvivenza. La critica di Berardinelli alla progressiva evaporazione del Novecento nell'oscurità gergale e autoreferenziale è assai persuasiva e coraggiosa, ma, a causa del suo settarismo ideologico, finisce per confluire in un nichilismo ancora più compiaciuto di quello messo sotto accusa. Per capire le cause della "negatività" novecentesca e della sua imprevista fertilità poetica, una lettura sotterraneamente luk csiana (il filosofo ungherese viene nominato solo di sfuggita in un libro che a mio parere gli deve molto) è parziale e in qualche caso fuorviante. La crisi dei fondamenti che è all'origine della lirica moderna non è solo il nefando effetto del filisteismo borghese che, con la complicità dei poeti meno accorti o più accomodanti, l'ha rinchiusa nel ghetto dell'art pour l'art. La rivoluzione del linguaggio poetico non è solo lo scacco formalistico di una mancata sfida sociale, ma fa i conti con trasformazioni epocali del sapere, dalla psicoanalisi alla scienza relativistica, che Berardinelli liquida con sufficienza o addirittura rimuove.
E questo accade senza alcun vantaggio per una storiografia letteraria che diventa particolarmente debole quando Berardinelli si volge alle cose italiane. L'intento di Berardinelli è quello di avvalorare una lettura critica pasoliniana che, come è noto, puntava su Pascoli e sull'espressionismo vociano per combattere la sua battaglia antiermetica e antiavanguardistica. Pasolini è stato un intraprendente critico e un ancora più eccellente prosatore, ma proprio perché non ha fatto altro che portare acqua al mulino della sua poesia; e quando essa si è esaurita è arrivato salvifico il suo cinema di poesia. Ora non si può invocare Pasolini (e nemmeno Debenedetti) per affermare la centralità di poeti che, secondo Berardinelli, si sarebbero opposti alla modernizzazione forzata del linguaggio poetico italiano, brillando come solitarie meteore in un cielo pressoché vuoto. Ecco che Gozzano, inappuntabile costruttore di snobistiche macchine celibi, diventa il poeta che ci parla di sé come un personaggio realistico e solo Giudici, con la sua "musa umile" potrà raccogliere quell'eredità. Montale, il primo a orientare coscientemente la poesia verso la prosa, viene dimenticato fino ai tempi di "Satura"; quanto all'"Allegria" è come se non fosse stata mai scritta e Ungaretti, seminatore di epigoni e maniere, è liquidato dal "Sentimento del tempo" in poi. Come se fosse possibile cancellare Petrarca a causa del petrarchismo. Lo stesso Saba che, luk csianamente, Berardinelli contrappone allo svuotamento di realtà della modernità, nell'intero arco del suo "Canzoniere" non ha mai smesso di colmare con le lusinghe del canto le erosioni di un'anima scissa. E come relegare in questa schiera ostinati cultori della rima come Caproni e Betocchi che veramente a stento possono essere affiancati a Sereni o a Bertolucci? Insomma Berardinelli sembra dimenticare che l'uso della prosa in poesia ha a che vedere anche con l'invenzione retorica e sintattica e magari presuppone violenti scarti nei confronti di quell'idea di realtà da lui riconfermata in termini perentori quanto generici. Del resto è proprio questo il punto in cui Berardinelli delude chiunque (ma non certo i poeti che sono molto maledettamente indisciplinati) avesse magari bisogno di una salutare lezione di vita. Nella terza parte del libro infatti, scritta per deplorare la confusa proliferazione della poesia degli ultimi vent'anni, apprendiamo che la poesia dovrebbe finalmente accettare la sua emarginazione sociale, lasciando il campo libero alla prosa; che lo stesso Berardinelli ha dato il buon esempio con i suoi saggi che, chissà perché, vorrebbe fossero letti come le sue migliori poesie; che la poesia più vera oggi è scritta dalle donne, ma purtroppo questo accade in coincidenza con la sparizione del genere lirico. Insomma, per concludere, sarebbe molto più saggio oggi rileggere gli ottimi testi del passato, piuttosto che osare scriverne di nuovi. Questa è dunque la squallida realtà che i poeti, malinconici viandanti delle rovine, dovrebbero glorificare. Ogni altra strada conduce a una patetica resistenza o a un riprovevole cedimento al vacuo ottimismo della quantità. Leibniz diceva che a mantenersi troppo distante dallo stagno si poteva udirne il gorgoglio, senza pero riuscire a discernere i pesci. Chi si mantiene troppo distante dallo stagno della poesia rischia di udire solo il proprio gorgoglio interiore e magari convincersi che, laggiù, in quel misterioso specchio, i pesci son tutti morti.
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