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recensione di Rognoni, F., L'Indice 1997, n. 7
Che William Wordsworth (1770-1850) abbia o meno "inventato" la poesia "moderna" - come Harold Bloom ripete da sempre, riservandogli un posto privilegiatissimo anche nel recente, vigoroso "Canone occidentale" (Bompiani, 1996) -, è fuor di dubbio che la sua opera meriterebbe maggiore attenzione da parte della nostra editoria: soprattutto in questi anni di riscoperta o definitiva canonizzazione di due poeti a modo loro molto "wordsworthiani" come Carlo Betocchi e Attilio Bertolucci. Certo, la traduzione integrale del grande poema autobiografico, il "Preludio" (Mondadori, 1990), ha fatto molto in questa direzione. Ma esistono una quantità di altri capolavori più accessibili, cioè di mole meno intimidente (il "Preludio" è di 9000 e passa versi!), che restano non tradotti, o comunque circolano poco o nulla. Senza dire che un classico probabilmente dovrebbe passare attraverso "più" traduzioni, e almeno qualcuna "d'autore", prima d'ambientarsi davvero in una letteratura diversa dalla sua; come appunto è successo con tutti gli altri grandi romantici inglesi, la cui fortuna italiana spesso inizia nell'Ottocento; ma non con Wordsworth: la versione pascoliana della ballata "Siamo sette" funge da brava eccezione che conferma la regola. Da ciò il paradosso per cui il lettore curioso può trovarsi fra le mani libri affascinanti come le memorie di De Quincey, "I poeti dei laghi" (Fazi, 1995), o i saggi autobiografici e letterari di Seamus Heaney, "Attenzioni" (Fazi, 1996), che contengono pagine stupende dedicate a Wordsworth - libri, voglio dire, attorno a una vita e una poesia ben reali... e leggerli come altrettanti racconti borgesiani o di Nabokov, commenti in margine a un testo inesistente!
Questa lunga premessa per salutare con soddisfazione la nuova silloge wordsworthiana di Angelo Righetti, il quale tralascia le poesie narrative, come "Michael" o "Il villino in rovina", per riproporre invece quasi tutti i capolavori "lirici" di questo poeta prolifico e sommamente diseguale. Qui si trovano, fra l'altro - in traduzioni precise e spesso felici, seguite da utili commenti, notevoli per le puntuali analisi metriche -, le grandi odi all'Immortalità e al Dovere, una nutrita serie di sonetti (fra cui quella celebre veduta di Londra addormentata, "Sul Ponte di Westminster"), diverse "ballate" più brevi, i limpidi versi all'"Allodola", al "Verdone", al "Cucù", al "Nido del passero", e le strofe severe di "Risoluzione e indipendenza", con quel loro distico proverbiale - "noi poeti da giovani cominciamo in esaltazione, / ma da questa viene infine sconforto e alienazione" -, così emblematico per un autore sopravvissuto tanto a lungo all'allegria della sua prima ispirazione, senza però mai cedere alla disperazione e alla follia.
Il lettore del "Preludio" riconoscerà lo stesso andamento del poema - "una musica ipnotica, che nuota con la corrente della propria forma piuttosto che contro di essa" (Heaney) - nella quieta eppure sublime meditazione di "Tintern Abbey", e nei conturbanti frammenti autobiografici "Andar per nocciole" e "C'era un ragazzo": poesie della scoperta di una memoria già proustiana, dove - come ben scrive Righetti - "l'io si confronta col paradosso della propria continuità psichica pur nell'evidenza dello stacco tra esperienza passata e consapevolezza presente". Il quale "sconcerto di una 'doppia coscienza'" (Righetti) è senza dubbio l'argomento principale dell'opera wordsworthiana, non solo nei testi che lo dichiarano, come la paradigmatica "Immortality Ode", ma anche in quelli che sembrano parlare (e parlano anche) d'altro: della prediletta Natura (che "mai ha ingannato / il cuore che l'ha amata"), o - molto più elusivamente - dell'amore per una donna. Come nelle brevi liriche che costituiscono l'enigmatico "canzoniere per Lucy" ("Un sonno mi sigillò la mente - / non avevo paure umane - / lei pareva creatura che non sente / il tocco di anni terreni"), o in quell'inconsueta epifania domestico-coniugale, "She was a phantom of Delight", dedicata alla moglie Mary, e forse insieme alla carissima sorella Dorothy: "Fantasma di felicità, lei, / che prima m'illuminò gli occhi - / apparizione stupenda, mandata / a far bello l'istante. / (...) / figura che danza, immagine giocosa, / per tormentare, sbigottire, sedurre. / (...) / E ora vedo con occhi sereni / (...) / essere che spira aneliti pensosi, / tra vita e morte pellegrina; / (...) / donna perfetta, nobilmente concepita, / per ammaestrare, consolare, comandare; / eppure sempre spirito fulgente, / in un alone di luce angelica".
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