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La caverna, la skiagraphìa o 'pittura d'ombra', il mito degli androgini, il sofista che crea un mondo ruotando attorno uno specchio che lo rifletta, Socrate tafano e torpedine marina: le immagini celeberrime del corpus platonico sono qui rimeditate alla ricerca delle 'ragioni' che consentono di leggerle non quali semplici tratti decorativi, ma come veicoli di verità. L'immagine (eikòn, èidolon) è infatti definita da Platone (Soph. 240 A) «una cosa che, fatta a somiglianza di una cosa vera, è distinta da questa e tale e quale la vera». Se, secondo la potente e celebre teoria della mìmesis, l'immagine è ontologicamente e gnoseologicamente decettiva (poiché copia dei sensibili, a loro volta copia delle idee), non è però del tutto priva di verità, ipotesi avallata dall'uso platonico di èidola legòmena, o 'immagini di parole' e dalla tesi (Tim. 71 A ss.) secondo cui l'anima appetitiva apprende il vero solo per via di 'immagini e fantasmi'. 'Falsa' è allora per Platone quella immagine che, come le ombre della caverna, vela e nasconde il proprio strutturale rapporto con il modello. Essa è prodotta da qualcuno che vuole, per suo tramite, ingannare altri disposti poiché inesperti del fondamento e oggetto vero di bellezza e felicità a farsi ingannare. L'obbligo socio-culturale di creare ed esibire invece immagini 'vere' risulta anche dal fatto che la prima forma della consapevolezza di sé matura, secondo Platone, nella contemplazione del proprio sé in imagine: l'immagine speculare rinviata dagli occhi dell'interlocutore che ci sta dinnanzi e che ci confuta, come fa Socrate paralizzante torpedine, oppure quella riflessa nel volto dell'amante con cui condividiamo la nostalgia della Bellezza persa con la caduta-incarnazione nel corpo. Nell'un caso e nell'altro occorre dunque saper 'immaginare' bene, cioè, per quanto possibile, con verità.
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