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"In "La pista di Ghiaccio" parlo della bellezza, che dura poco e finisce quasi sempre in modo disastroso". Sono queste le parole con cui Bolano sintetizza il proprio romanzo. E la bellezza c'è, è quella seducente della pattinatrice, una delle tre figure cardine del romanzo; ed è quella della scrittura, che pure in una storia che a tratti si complica e si fatica a seguire, risplende per cura e originalità.
Una scrittura lucida e appassionata per un ritratto di varia umanità.
Non leggete questo libro se vi cercate una bella trama di giallo perchè credo che rimarrete molto delusi. Se cercate altro, una buona scrittura una capacità di descrivere personaggi e sentimenti invece sarete più contenti e vi potrebbe piacere come è piaciuto a me
Recensioni
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Al centro di tutto c'è una pattinatrice. No, al centro di tutto c'è una vecchia barbona, ex cantante lirica. Non si sa cosa ci sia al centro di tutto, in questo come in altri romanzi di Roberto Bolaño, cileno, esule in Messico, esule in Catalogna, poeta e uomo dei mille mestieri, lettore onnivoro, erede di tutte le avanguardie e tuttavia denudato fino all'osso. Forse al centro c'è un grande silenzio, qui rappresentato dalla pista di ghiaccio, forse una grande distanza, la distanza dal Cile, dal Messico, dall'America Latina, da un qualunque possibile centro, una distanza che ogni volta svuota e riempie di sé i suoi personaggi. In questo romanzo del 1993, fra le prime prove narrative di Bolaño, che in precedenza scriveva poesie, ci sono già tutti gli elementi dei suoi Detective selvaggi e di tanti suoi racconti successivi. Un enigma, e la deriva. Deriva geografica e deriva esistenziale. Una gioventù protratta che diventa vita ai confini della vita, in un non luogo che è tutti i luoghi.
Qui la scena è un paese della Costa Brava, qui l'enigma è una morte, prima annunciata, poi, a poco a poco, rivelata, come in un romanzo poliziesco, nel ruotare progressivo di un congegno perfetto. Ma non è questo il punto. La pista di ghiaccio non è un poliziesco. È un romanzo sulle erranze della vita e sugli smarrimenti dell'amore. È un romanzo di voci che narrano.
L'anno scorso, quando morì Bolaño, Elena Hevia, giornalista di Barcellona, scrisse di lui: "La sua conversazione fermava gli orologi". Bolaño era un grande narratore orale. Ricordo di una notte in cui raccontò, fra amici, della tristissima vita dei pinguini nel loro mondo di ghiaccio, vita solitaria e sperduta. Ecco, in questo libro ci sono tre personaggi che narrano, instancabili. Ogni due o tre pagine finisce un capitoletto e la voce cambia; i tre si alternano, raccontando ciascuno una storia che è un pezzo della storia più grande. Un po' come accade nei Detective selvaggi, anche se in piccolo. Qui sono un cileno, un messicano e un catalano. Sono solo gli uomini a parlare. Le donne in questa storia sono importantissime, ma non parlano, agiscono: pattinano, fanno l'amore, allevano i figli, fanno politica, cantano. Quando parlano, usano la parola per agire, per mandare avanti l'azione, non per raccontare.
E dal mosaico delle tre voci maschili che narrano, mettendo in scena queste donne sempre attive, sempre sfuggenti, nasce la storia che è la storia di un'estate e la storia di un delitto.
È curioso poi, che in questa estate sulla Costa Brava, nessuno dei personaggi sia un villeggiante, un bagnante. Tutti vivono o lavorano o vagano nel paese; i villeggianti sono gli altri: tedeschi, olandesi, pensionati, gente senza volto che riempie le spiagge e i bar, i campeggi e le terrazze dei chioschi, inondando l'aria di odore di abbronzanti e gelati, gente sempre estranea e intercambiabile. Questo spinge anche coloro che non sono esuli o immigrati in una condizione espropriata o, in qualche modo, volontariamente marginale. Perfino il protagonista catalano, burocrate, socialista attivissimo, braccio destro della sindachessa, serrato fra le ambizioni di carriera in ambiti meno provinciali e i limiti imposti da un fisico non proprio avvenente, evade verso un amore impossibile: la bellissima Nuria, pattinatrice con aspirazioni olimpioniche estromessa dalla squadra nazionale.
L'amore per Nuria lo spinge verso un'impresa altrettanto impossibile. Fuori dal paese sorge il palazzo Benvingut, costruzione abbandonata di inizio secolo, capriccio del modernismo catalano, palazzo delle mille e una notte, Shangri-La, isola paradisiaca, labirinto piranesiano e estremo rifugio di derelitti. All'interno del palazzo il burocrate catalano, stornando fondi pubblici, adatta la piscina a pista di ghiaccio affinché l'amata possa allenarsi sulle note della Danza del fuoco di Manuel de Falla (nel cuore di ghiaccio del libro, la Danza del fuoco, forse in omaggio a un bel racconto di Silvina Ocampo intitolato La pista di ghiaccio e di fuoco), in vista di una difficile selezione olimpionica. Ogni pomeriggio la guarderà volteggiare sul ghiaccio della pista segreta, ogni pomeriggio condividerà con lei piccole merende sui gradini del parco a picco sul mare, ogni pomeriggio lei, prima dell'allenamento, lo tradirà, andando a fare l'amore con un altro dei narratori: il cileno, mezzo poeta e mezzo avventuriero, proprietario del campeggio Stella Maris. E nel micromondo dello Stella Maris si snodano e si annodano le storie di altri e più curiosi personaggi: il guardiano notturno messicano, alter ego di Bolaño, che insegue le vicende di una strana coppia di vagabonde, la vecchia Carmen e la giovane Caridad, forse malata, forse tossicomane, forse assassina, senz'altro folle.
Cosa unisce e fa incontrare queste vite se non la dispersione e la deriva? È forse importante che ci sia un delitto a legare il tutto, se non per rendere più straziati gli smarrimenti e le perdite e le mancanze? Qui il romanzo giallo si rovescia su se stesso, perché non è per scoprire l'assassino che ci troviamo a leggere e a seguire la vicenda che, lo ripeto, è perfettamente congegnata, ma per esplorare i contorni di mondi interiori che si slabbrano e si sfilacciano e si perdono e inspiegabilmente si incontrano. E alla fine, quando l'assassino come per caso salta fuori, non interessa più a nessuno, il problema è un altro, è lo smarrimento di tutti gli uomini e le donne gettati su questa terra, alcuni accanitamente tesi a salvare la faccia, altri, che alla faccia hanno da tempo rinunciato.
C'è una grande pietà in questo libro, e anche una grande spietatezza, perché solo dallo sguardo che affonda come un bisturi nel dolore e nella miseria umana può nascere una simile pietà, che nella scrittura di Bolaño, nitida, e misurata, talvolta di una sciatteria che è frutto di un'eleganza schiva, trova la sua espressione più pulita.
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