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(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)
recensione di Carbone, R., L'Indice 1989, n. 1
La quarta di copertina de "Le pietre di Pantalica" è occupata per intero da una bella fotografia in bianco e nero. Vi è ritratto un signore in piedi ad un angolo di stanza, con carte e libri disordinatamente composti, davanti ad una finestra oltre la quale si può scorgere, chiaro, uno scorcio di campagna. Il signore ha una mano in tasca e nell'altra tiene una sigaretta accesa. Il suo sguardo è atteggiato a un sorriso, una sorta di bonaria ironia indirizzata in un punto impreciso della camera, in basso alla sua sinistra, fuori campo. Mi ricorda uno di quegli uomini di mezza età il cui aspetto custodisce ancora i tratti della gioventù nella pelle liscia delle guance, negli occhi pronti ad essere discretamente coperti da un paio di occhiali. Un giovanotto un po' avanti negli anni, uno di quei studenti meridionali che venti, trent'anni fa si aggiravano per le università del nostro paese (ne esistono ancora oggi, ma sono più rari), frequentando tutte le lezioni e leggendo tutti i libri, con un buon gusto innato, senza ombra di affettazione. I migliori.
"Le pietre di Pantalica" rispecchia fedelmente l'immagine del suo autore. Solo una persona del genere avrebbe potuto scrivere questi quattordici racconti, tutti belli, tutti eleganti. Consolo narra di un'isola, la Sicilia, che è un mondo grande, ancora a lui non del tutto conosciuto (un'isola è un'isola solo per chi ci arriva da fuori). Un mondo che sembra inizialmente fuori dalla storia, dal suo insensato turbine di eventi. Nella scansione data ai testi, suddivisi in tre sezioni, se c'è un percorso narrativo, un filo rosso che li lega assieme è questo: un progressivo, inesorabile avvicinamento alla crudeltà della storia, tanto più crudele quanto più vicina a noi, e infine presente. Circola un 'aria conosciuta in molte di queste pagine, un 'aria letteraria che ricorda certi modelli del narrare. La Sicilia di Consolo è molto più somigliante a certi racconti di Verga (non citato, se non alla lontana) che di Pirandello (più che citato). S.Agata di Militello è del resto molto più vicina a Catania e alle sciare di Aci Trezza che non a Girgenti. Una Sicilia fatta di nomi e soprannomi che si sciolgono in bocca come il prezioso distillato di miele che il narratore beve ad un certo punto a Pantalica, Turi 'Nofrio Schepis la Zuppidda, di voci che si susseguono una dopo l'altra nessuna prevaricando sull'altra mai togliendole la parola (simile in questo al Sud raccontato da uno scrittore delle mie parti purtroppo dimenticato, Mario La Cava).
È una Sicilia popolata di persone e di belle lettere, ed è strano come questo ultimo libro dell'autore di "Lunaria", scritto in una scrittura piana, alleggerita, senza zavorra alcuna, risulti alla fine più letterario dello scintillio espressionistico de "Il sorriso dell'ingenuo marinaio". Lasciatisi alle spalle certi fuochi d'artificio (che pure qua e là balenano ancora all'improvviso) Consolo ci parla della gente che ama, di quella che non c'è più, di quella che c 'è ancora ma non ci sarà per molto (i morti raccontati come vivi, i vivi come morituri: si spera il più tardi possibile). Di una Sicilia attraversata da gente di tutti i tipi, dal frate pazzo Agrippino Salerno che vive la sua fede religiosa in un sentimento struggente di autodistruzione, di vero e proprio cupio dissolvi (se parlasse ancora in greco direbbe come la Sibilla, apothanein thélo) al fotografo Robert Capa che passa di guerra in guerra, dalla Spagna alla Sicilia all'Indocina, e che vuole anche lui morire; da Sciascia che fuma forti e grosse sigarette americane ("diuturno rischio di vita e di ragione") al giovane marinaio Basilio Archita che la morte la vede da vicino, è una chiazza rossa di sangue in mare aperto.
C'è qualcosa nella narrativa di Consolo che si potrebbe definire vocazione paesaggistica, un occhio che vede tutto e di tutto rimane affascinato, della Siracusa di una volta, ormai distrutta, e del paesaggio lunare di terre già feudali. Ma è come se quest 'occhio vedesse tutto coperto come se gli esterni diventassero interni, stanze di una casa popolata di presenze magiche e in fondo benevole (i fantasmi del barone Casimiro Piccolo, fratello di Lucio, poeta malinconico e sublime). I paesaggi di Consolo escludono l'en plein air, sono delle vedute a forti tinte quadri espressionistici a metà tra Munch e Kokoshka. C'è sempre un 'ombra che appare dietro una pietra di rovina tra un carrubo e una colonna sterrata. C'è sempre una voce che parla e che vuole raccontare, dire ecco il mondo è stato tutto questo, fermati ascoltalo non durerà per molto anzi, vedi, è già scomparso.
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