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recensioni di Carassi, M. L'Indice del 2000, n. 09
Una visita emozionante al cantiere di restauro di La leggenda della vera croce, affrescata da Piero della Francesca nella basilica di Arezzo, rivela all'autore un dettaglio finora sfuggito agli storici e tale da aprire prospettive inattese nell'interpretazione del ciclo pittorico e nella sua datazione. Il segno araldico dei gigli che compare su una delle bandiere, nella battaglia rappresentata da Piero, è lo strumento per riaprire l'indagine su uno dei quattro enigmi di storia dell'arte italiana che Savorelli affronta con gioiosa seppur controllata perfidia nello smontare precedenti affermazioni di illustri colleghi.
I quattro casi, che spaziano dal XII al XV secolo e comprendono scultura e pittura, hanno in comune la particolarità di offrire immagini araldiche alle sfide interpretative degli studiosi. Ma è noto che i segni araldici si prestano a facili fraintendimenti se trattati in maniera non scientifica, se collegati a immagini solo superficialmente simili o qualora se ne trascuri il contesto originario nell'ambito di una iconologia impressionistica.
Se, come è stato detto, l'uomo è un animale simbolico, incapace di dire chi è se non può addurre di essere un'altra cosa, risalire dal simbolo al significato può essere una questione molto più complicata (e divertente) di quanto ci si potrebbe aspettare. Savorelli si rifà all'araldica nuova, ormai entrata a pieno diritto tra le discipline ausiliarie della storia, dopo essersi guadagnato un suo statuto filologico-critico sotto l'influsso della scienza dei segni, delle mentalità, della storia dell'arte, della linguistica e di altre branche moderne della ricerca storica. Accanto alle tradizionali funzioni, il nuovo approccio all'araldica ama indagare il modo in cui essa fornisce una classificazione di individui e gruppi, proclama il nome di una famiglia o persona, sottolinea legami di parentela, contribuisce a controllare la società, segnare la proprietà e decorare oggetti. Significativa è la pittoresca espressione di uno dei massimi esperti europei di araldica, Michel Pastoureau, secondo il quale il ritrovamento di stemmi su manufatti e monumenti è suscettibile di svelarne lo "stato civile" e la datazione, almeno entro un certo arco cronologico. Un nuovo modo di studiare gli stemmi consente altresì di indagare sulla personalità dei titolari, le cui aspirazioni, credenza, cultura e sensibilità possono trovarsi riflesse nelle rispettive scelte araldiche. Si consideri in proposito che circa un quarto degli stemmi europei è costituito da stemmi "parlanti", come il fiore di giglio per Firenze.
In quest'ottica, Savorelli non pretende di assegnare valore generale di metodo alle sue investigazioni, e anzi spinge la sua correttezza - e prudenza - di studioso a sospendere talora il giudizio, facendo appello ad altri ricercatori perché con altri documenti cerchino di falsificare o confermare le sue ipotesi. Indubbiamente, tuttavia, i risultati conseguiti nelle quattro indagini appaiono utili non solo sul merito dei casi discussi (e sarebbe già meritorio anche solo averli sfrondati di interpretazioni inconsistenti). Essi sono preziosi anche per la raffinata palestra di spirito critico che li accompagna, e perché rendono evidente la mancanza di strumenti di base, quali repertori e manuali, per un esercizio meno faticoso della ricerca e per l'evoluzione scientifica della disciplina.
Si considerino ora brevemente i casi citati nel volume.
L'esame di un dipinto romanico del XII secolo nel palazzo della Ragione a Mantova ruota attorno all'individuazione dello stemma degli Angiò (campo azzurro seminato di gigli d'oro) doppiamente brisato, cioè lievemente modificato per indicare rami della stessa famiglia, in questo caso i principi di Taranto. Ciò consente di restringere da quaranta a dieci anni l'arco cronologico dell'edificazione del palazzetto gotico di Popoli (Sulmona) detto "Taverna ducale".
L'interpretazione della lunetta del portale maggiore del palazzo dei priori di Perugia, che è tra le opere più note della scultura umbra del Trecento, lascia intravedere due possibili oggetti: la simbologia dei confini dello Stato perugino (ipotesi che scaturirebbe dall'interpretazione del segno araldico della formella A come giglio angioino), o la celebrazione della vittoria del 1352 sui Visconti con l'aiuto di Firenze e Siena (ipotesi fondata invece sull'interpretazione della formella A come recante il giglio di Firenze e dell'intera lunetta come compendio dell'imago mundi medievale).
L'esame della mitografia delle origini dello stemma di San Gimignano si rivela come un caso esemplare di anacronismi che occultano la storia. Il magnifico soffitto del Vasari nel salone dei Cinquecento del palazzo vecchio a Firenze illustra con le rispettive insegne araldiche le comunità che, pur essendo assoggettate a Firenze, godono le glorie del principato. Gli stemmi non solo rappresentano una funzione decorativa, ma indicano anche il desiderio del nuovo principe di fondare il proprio potere sul consenso delle città, accreditando in tal modo una forte continuità tra repubblica e principato. Taluni comuni sono tuttavia rappresentati con due insegne, come San Gimignano (una balzana rossa e gialla, cui si sovrappone nella seconda immagine un leone bianco). Per analogia con quanto indicato dal Vasari nei suoi "Ragionamenti" a proposito di Arezzo, Savorelli identifica il leone come l'insegna del Popolo di San Gimignano, distinto da quella della città. Scomparso il regime dualistico del potere comunale, a San Gimignano sarà proprio lo stemma del Popolo a divenire lo stemma definitivo della città.
Infine la già citata Leggenda della vera croce di Piero della Francesca evidenzia come l'omessa considerazione della simbologia araldica abbia impedito finora ai critici di ben giudicare le connessioni tra l'opera d'arte e il contesto storico da cui proviene. In particolare la battaglia di Eraclio e Cosroe, pur con la sua sovrapposizione anacronistica di insegne autentiche, presunte e apocrife, sembra alludere al progetto non realizzato di una crociata anti-turca dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, in quanto l'affresco contiene indizi per l'identificazione di un committente individuale, ideologicamente orientato in maniera difforme da quella prevalente nella sua famiglia, o addirittura esprime il desiderio, di fronte alla rinnovata minaccia esterna, di un superamento dei tradizionali contrasti tra guelfi e ghibellini. Particolarmente interessanti le considerazioni di Savorelli sulla committenza dell'opera d'arte, che non deve essere indicata genericamente in un clan, bensì individuata in singoli individui, da non appiattire necessariamente sull'ideologia tradizionale del gruppo di appartenenza. L'interpretazione suggerita si ricollega a quella di Carlo Ginzburg (Indagini su Piero, Einaudi, 1981) sull'esistenza di una frattura culturale collocabile al momento in cui a Piero della Francesca è affidato il completamento dei lavori del vecchio pittore Bicci. Se così fosse il ciclo degli affreschi di Arezzo sarebbe databile a dopo la permanenza di Piero a Roma (1459) e mentre il cardinal Bessarione tenta di raccogliere nel porto di Ancona una flotta destinata all'"ultima crociata".
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