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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2020
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Non conoscevo il libro, né l'autore. Comprato quasi per caso, è stata per me una piacevole scoperta.. Il libro lascia la sensazione che trasmettono i classici, di parlare dell'animo umano e dei sentimenti come fossero universali e senza tempo. Orgoglio, dignità. Ma soprattutto gelosia e perdono. È possibile perdonare davvero chi si ama ma ci ha traditi, o la gelosia tornerà sempre? Questa la domanda a cui prova a dare risposta il libro. Il perdono è possibile, o per l'essere umano è impossibile dimenticare davvero?
Recensioni
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Nel sodalizio umano e artistico che lo unì per lunghi anni a Flaubert, Zola e Goncourt, il provenzale Alphonse Daudet si distingueva per un'indolenza ostentata verso le ambizioni della professione: nessuna aspirazione al seggio dell'Académie Française, nessuna teorizzazione intorno ai propri romanzi, e meno carnets di appunti o sopralluoghi ambientali rispetto al classico romancier naturaliste (definizione che respingeva per sé).
Decisamente l'istinto, peraltro nutrito di classici, lo consigliava benissimo, visto che era l'unico a contendere a Zola il primato delle tirature (esemplari le centomila copie di Sapho). Aveva, tra l'altro, intrapreso due strade fertilissime su cui nessuno dei colleghi lo avrebbe seguito: quella del romanzo d'infanzia (Le Petit Chose, Jack, Soutien de famille) e quella farsesca della trilogia di Tartarino (Flaubert, letto il primo della serie, non esitò a parlare di capolavoro, raccomandandone la lettura a George Sand). Enorme risonanza toccò anche ai romanzi del ciclo Moeurs Parisiennes; e nel 1883 una critica del sempre attendibile Henry James rendeva omaggio all'"infallibile tocco poetico", alla "morbidezza", al "senso del bello" che Daudet riversava in ogni pagina (anche la più triste e penosa) con un talento naturale che evitava la "durezza", e talvolta l'"aridità", di altri illustri contemporanei.
Negli stessi anni, iniziavano i tentativi di discredito. L'arcigno Léon Bloy (per cui Daudet era un "ladro di gloria") sottolineava i tanti imprestiti di idee e soggetti dagli altri naturalisti e indicava in Jack una sorta di plagio (peraltro riuscito) del David Copperfield. Più concreta purtroppo l'accusa, sostenuta da Mirbeau e poi da Maurras, che le Lettres de mon Moulin (1869) libro capitale per la fama di Daudet fossero in parte opera di Paul Arène con appropriati interventi, non solo stilistici, di Julia Daudet, moglie e musa ispiratrice, la cui mano sarà riconoscibile anche in altri manoscritti (le rivelazioni di Jean-Jacques Lefrère, critico e grafologo, guastarono nel 1997 il centenario dello scrittore).
Alcuni infortuni diplomatici di quei successi sono poi noti, ma vanno a merito di Daudet: L'Evangeliste (1882) spiacque agli ambienti protestanti e alla destra; L'Immortel (1888) indignò l'Académie Française al gran completo e Les Rois en exil (1879) le frange di monarchici nostalgici; i provenzali non amarono riconoscersi nei fallimenti dei neo-parigini del Midi Le Nabab (1877), Numa Roumestan (1881), Sapho (1885) né i tarasconesi (quanto mai ingrati) nelle macchiette caricaturali di Tartarin. Si registrarono altri malumori quando in certi romanzi furono comunque riconoscibili, non nella luce migliore, personaggi come il duc de Morny o Léon Gambetta.
Entrato il naturalismo nel cono d'ombra del Novecento (un ridimensionamento che dai decadenti e ai surrealisti giungerà sino alle tesi del Degré zéro de l'écriture di Roland Barthes), fu Daudet a pagare all'inattualità uno dei prezzi più alti. I pregiudizi sugli imprestiti da terzi, la diffidenza ispirata da quelle altissime tirature popolari, il confronto con l'impegno zoliano, le posizioni conservatrici dell'autore (su cui in realtà si riverberavano quelle estreme del figlio Léon) aggravarono il giudizio su una narrativa che apparve comunque invecchiata, convenzionale, femminile (poco mancò che la si confondesse con quelle edulcorate di Feuillet o di Ohnet). La stessa seducente leggerezza indicata dai due lunghi saggi di James e Zola fu quasi sempre percepita come superficialità (di ambientazione, di personaggi) e sentimentalismo borghese (qualche concessione toccava pur sempre alla freschezza delle opere provenzali: alle solari Lettres de mon Moulin come alla Camargue scura e magica del postumo Le trésor d'Arlatan).
È storia recente l'ingresso di Daudet nella "Biblioteca della Pléiade", insieme a qualche inatteso contributo sulla modernità della sua scrittura impressionista, giocata efficacemente più sulla sovrapposizione di istanti diversi che sulla continuità della durata, con un abile impiego della pluralità dei punti di vista. Soprattutto nei più lunghi e ambiziosi romanzi si scopre anche la forza di Daudet (i solenni funerali del duc de Mora, in Le Nabab, costruiti come un grande capitolo di Zola). L'ultimo anno (1897) riserva non soltanto impeccabili ispirazioni (a mezzo tra racconto lungo e romanzo breve) come La Fédor e il citato Trésor d'Arlatan, ma anche ilcompimento dell'autobiografico La doulou (pubblicato solo nel 1931), diario asciutto e intenso delle sofferenze causate da una sifilide semi-paralizzante contratta in anni di libertinage giovanile ed esplosa sinistramente nella maturità (destino già toccato a Jules de Goncourt e Flaubert, Baudelaire e Maupassant). Pur raro, è questo uno dei pochi testi di Daudet reperibili oggi in italiano (è edito da Lubrina), insieme alle Lettres de mon Moulin (Garzanti), ai tre "Tartarini" einaudiani tradotti da Aldo Palazzeschi (il vertice resta quello "sur les Alpes") e a un solo grande romanzo, pubblicato da e/o, Sapho (molto amato da Proust: il legame di Gaussin e Fanny ben somiglia per malintesi e sofferenze a quello di Swann e Odette).
Tanto più stupisce che, con tante possibilità aperte, la scelta di un volenteroso editore (coadiuvato da una brava traduttrice, Lilli Monfregola) sia caduta su un romanzo minore, La Petite Paroisse (1895), non a caso non incluso nei tre volumi "Pléiade". Il cambio di titolo Il piccolo villaggio non salva l'opera dal suo vettore edificante e consolatorio, così poco consono al lucido pessimismo di Daudet. Vi si narra del matrimonio tra Richard Fénigan, proprietario terriero (siamo nella regione Seine et Oise), e una trovatella, Lydie, messo in crisi da un giovane aristocratico senza scrupoli (un avvenente Lovelace fin de siècle, con tanto di scellerata corrispondenza). Lydie, in fuga con quest'ultimo verso la Bretagna, e ormai incinta, verrà riportata al nido dalla suocera, un tempo a lei avversa per gelosia materna. Punto d'irradiazione di questo e di ogni altro gesto di conversione, pacificazione e perdono, sino al lieto fine, è la piccola parrocchia del villaggio edificata da un vedovo inconsolabile, il devoto Mérivet, e affidata a un sant'uomo, l'abate Cérès.
È vero che, stando a un passaggio di La doulou, Daudet si era proposto di riscattare le impertinenze anti-accademiche di L'Immortel con un nuovo romanzo "tendre et bon, indulgent": ma troppa bontà non solo ha allontanato la sua vena da quel "grande soffio della vita moderna" che secondo Zola ne caratterizza il lascito, ma sembra avergli offuscato buona parte della finezza analitica. In luogo dell'immancabile sensazione di vissuto dei migliori romanzi, La Petite Paroisse procede su certi eterogenei espedienti ascrivibili al romanzo epistolare (le prolisse missive del seduttore) e soprattutto al feuilleton: c'è un tornante della vicenda che si tinge di "giallo" e spunterà persino un'agnizione (ne lasciamo le scoperte al lettore).
I molti interrogativi sul carattere spurio del romanzo lasciano supporre, in una fase particolarmente acuta della semi-paralisi dello scrittore, un affidamento in altre mani (quelle di Mme Daudet), decisivo per la fisionomia dell'opera: l'ispirazione femminile, soprattutto, non poteva facilmente rinunciare al lieto fine. Immaginarsi, poi, se il disincantato Daudet credesse alle folgorazioni di una chiesetta campestre: renitente com'era secondo un ricordo di Pierre Loti a qualsiasi genuflessione, pur tra le angosce incalzanti dell'atroce doulou.
Carlo Lauro
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