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Se dopo otto anni dall'ultima recensione di Federico, come leggo, giunge la mia, allora davvero il libro di Polgar è una gemma immortale che vola al di là del tempo e dunque da custodire e da cui attingere di volta in volta pienezza e pillole. E' un altro di quei monumenti all'anima che solo Adelphi sa dispensare da decenni, un'opera che solo la devastante sordità dell'ovvio, del comune e del becero può non comprendere e toccare nel vaso intatto e profumato della cultura quando questa è altissima. Ma sono opere che non possono non salvare, libri che salvano appunto per differenza con ciò che domina e traina la mediocrità libresca. Polgar, o del genio!
Splendido! Mai letto autore più conciso ed espressivo del viennese, grande maestro delle '100 righe in 10 righe'. Un paio di frasi sanno iniettare nel cervello manciate di sensazioni, idee, informazioni! E il cinico umorismo con cui opera è invidiabile quanto la schiettezza e l'onestà del suo pensiero, che trapela prepotente, ma educato, tra le righe. La cosa che mi stupisce è però l'essere venuto a conoscenza che poche opere di Alfred Polgar siano state tradotte. Ma d'altronde cosa non aspettarsi al giorno d'oggi (e dal mondo d'oggi...)
Recensioni
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scheda di Rovagnati, G., L'Indice 1995, n. 3
Un'antologia suddivisa in undici sezioni offre per la prima volta al pubblico italiano la possibilità di accostarsi alla prosa di uno dei più brillanti esponenti del 'feuilletton' di lingua tedesca: il viennese Alfred Polgar (1875-1955). Ricordi di gioventù, considerazioni sull'uomo e sul mondo, osservazioni su attori e spettacoli teatrali, suggestioni estemporanee suggerite da incontri con persone e città, riflessioni su grandi e piccole figure della cultura o della realtà quotidiana, impietose immagini della vita di coppia sono alcune delle tessere che compongono il variegato mosaico delle "Piccole storie senza morale", brevi brani "non privi di insolenza" (Musil), attraversati da "una vena beffarda"(Benjamin). I testi, tratti da ben diciotto volumi di scritti pubblicati fra il 1922 e il 1959, si susseguono in una rapida fuga policroma, dietro la cui 'levitas' stilistica si nasconde un autore mordace e disincantato - più vicino al tocco discreto di Peter Altenberg che al gusto caustico di Karl Kraus - sempre intento a smascherare con un sorriso amaro la sostanziale illusione del senso del vivere, l'eterna non corrispondenza fra essere e apparire nel fluttuare della storia che si fa più crudele e inaccettabile col passare degli anni.
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