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La trama è semplice una donna Erika, non più giovane, vive prigioniera della madre. La sua vita è scandita dalla musica di Bach e Schubert, dalle lezioni impartite a studenti mediocri. Improvvisamente, una nascente storia d'amore sembra rappresentare il riscatto,la fuga da una dimensione masochista e violenta. Il libro è bello, scritto in modo diretto e con un linguaggio spesso forte. Nessun dialogo, la storia rappresenta solo il punto di vista di Erika sebbene sia narrato in terza persona. Elfriede Jelinek è stata stato designata Premio Nobel per la letteratura 2004, la motivazione dell’Accademia Svedese: "per il fluire musicale di canto e contro-canto nei romanzi e nei drammi che con straordinario ardore linguistico rivelano l'assurdità dei clichés della società contemporanea e il loro potere soggiogante". Da questo libro, il regista Michael Haneke ha tratto un film dallo stesso titolo, interpretato da Isabelle Huppert ed Annie Girardot (premiato a Cannes nel 2001)
Pur avendo sentito parlare di questo libro, mi sono decisa a leggerlo solo dopo aver visto il film realizzato da M.Haneke. Il film è davvero mal fatto, al limite dell'inguardabile, tuttavia il soggetto mi ha letteralmente stregato. E ciò mi ha permesso di scoprire un libro splendido,che ho attentamente sottolineato nelle parti migliori. La scrittrice si colloca nella recente letteratura austriaca, sin dal primo momento l'ho infatti mentalmente accostata alla Bachmann, anche se le differenze sono spiccate. Colta, artisticamente impegnata, la Jelinek racconta una storia di una densità che travolge, che inonda e non lascia il minimo spazio a nessuna forma di leggerezza. Tutto è pesante: la vita di Erica Kohut, le vie di Vienna, le vetrine dei negozi, il Prater, i pensieri occulti delle persone che si incontrano per strada, il rapporto schiavista che Erika ha con la madre, l'amore troppo amore e il sesso troppo sesso. Ogni parola del libro, così come ogni contenuto che descrive, affonda con profondità nel lettore e lo trascina dentro la sofferenza di questo devastato interno viennese. In esso si muovono personaggi colpevoli di vivere vite assurde: Erika Kohut è vittima-complice del delirante rapporto con la madre, che continua a picchiarla e a farla dormire nel suo letto matrimoniale come se fosse una bambina. Ma anche Walter Klemmer, allievo al conservatorio di Erika e suo spasimante, è a sua volta vittima del delirio sadomasochista che Erika vorrebbe imporgli, e diventa in breve tempo il suo secondo carnefice. La violenta, implorandogli di amarlo, nell'ingresso dell'appartamento delle due donne. "Può tutto questo avere a che fare con la civiltà?" si chiede il narratore. Con ciò la Jelinek non impone alcun giudizio, e nemmeno potrebbe, perchè in questa sua storia non c'è un bene ed un male, e sembra quasi che ad essere in torto siamo noi che osserviamo dall'alto lo strazio indicibile della vita di Erika e Walter senza riuscire a provare nient'altro che pietà. Lo stile è duro, 'petroso', ma profondamente e c
Recensioni
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JELINEK, ELFRIEDE, Nuvole. Casa, SE Studio Editoriale, 1991
JELINEK, ELFRIEDE, La voglia, Feltrinelli, 1990
JELINEK, ELFRIEDE, La pianista, Einaudi, 1991
recensione di Calabrese, R., L'Indice 1992, n. 2
Dopo la fulminea traduzione, lo scorso anno, del romanzo "La voglia", assimilato frettolosamente al filone ormai di sicuro successo dell'erotismo femminile, la pubblicazione di due opere apparentemente molto diverse tra loro: il monologo "Nuvole. Casa", ispirato dal crollo del muro di Berlino, ed il romanzo "La pianista", risalente invece al 1983, che consentono ai lettori italiani una valutazione più meditata di Elfriede Jelinek, autrice tra le più affermate nei paesi di lingua tedesca.
Nata nel 1946 a Mürzzuschlag, un piccolo centro della Stiria, e cresciuta a Vienna dove ha studiato musica, storia dell'arte e teatro, ha fatto parte - insieme a Peter Handke e Barbara Frischmuth, per citare solo i nomi noti anche da noi, - del cosiddetto Gruppo di Graz, che con la rivista "manuskripte", a partire dalla metà degli anni sessanta, ha attaccato le ideologie conservatrici e quel provincialismo culturale che in Austria si manifesta con l'adesione alla tradizione tedesco-nazionalistica, e ha delineato forme estetiche alternative connesse alle tendenze dell'avanguardia, con un accentuato interesse per il rifiuto e la critica.
La sua produzione multiforme che spazia dalla lirica alla narrativa, ai libri per l'infanzia, al radiodramma ed al teatro, nonché alla traduzione, ha suscitato violente polemiche e feroci campagne di stampa. Un tema ricorrente è l'erotismo femminile - rifiutata viene recisamente la definizione di pornografia - o meglio l'impossibilità della sua serena e liberatoria realizzazione. "La tragedia - ha dichiarato la scrittrice in un'intervista alla 'Suddeutsche Zeitung' durante la stesura di "La voglia" - è che niente è possibile tra uomini e donne, perché il desiderio degli uni estingue quello delle altre e non trova compimento. Il piacere femminile non si può realizzare insieme all'uomo".
I suoi romanzi presentano la riduzione dei sentimenti a merci di scambio, l'alienazione degli individui che nell'asservimento delle donne raggiunge il culmine della disumanità, in una prospettiva femminile di impianto marxista che ha più volte suscitato la diffidenza del movimento femminista. Una famosa affermazione di Ingeborg Bachmann "secondo cui il fascismo dopo il '45 si è annidato nella famiglia, nella sessualità tra un uomo e una donna, e nella repressione e nella violenza esercitata sui figli", leggiamo in "Nuvole. Casa", viene ripresa e portata alle estreme conseguenze con una crudezza ed una brutalità lontane dalla reticenza pregna di significato e dalla scrittura folgorante della grande compatriota. La violenza subita che nei personaggi bachmanniani diventa autodistruttività e "causa di morte", come suona il titolo dell'opera da lei lasciata incompiuta per una morte che tanto somiglia ad un suicidio, nelle figure di Jelinek si manifesta in una sessualità distorta. Se Gerti, protagonista de "La Voglia", è annullata nella dimensione di oggetto sessuale, Erika Kohut, la pianista del romanzo omonimo, sembra, rifiutare ogni aspetto della realtà materiale, reprimere ogni desiderio in un asessuato distacco.
Oppressa da una madre tirannica, "inquisitore e plotone d'esecuzione nella stessa persona" che si occupa di sorvegliarla da presso e di soffocare ogni tentativo di insubordinazione, la matura Erika, concertista fallita ha dovuto abbandonare i sogni di gloria e ripiegare sul soffocante decoro dell'insegnamento di pianoforte al conservatorio. Sottoposta fin dalla più tenera infanzia ad una ferrea disciplina in cui la musica assume un ruolo di costrizione e di esorcismo di ogni trasgressione ("Meglio la vetta dell'arte che le brame del sesso") ad opera della madre e della nonna - diabolica genealogia femminile che volutamente stravolge un motivo caro al femminismo - Erika assume il ruolo di brava bambina invecchiata, obbediente, ridotta ad "un apparecchio compatto in forma umana". La feroce autorepressione si trasforma in brama distruttiva ed Erika, che "non ha una storia e non fa neppure storie", afferma la sua incerta individualità con la trasgressione della cleptomania e la smania smodata di acquisti, la sua sessualità con la pratica masochistica di tagliuzzarsi il corpo, con visite a 'peepshow' di periferia e spiando al Prater squallidi amplessi clandestini. Quando un giovane allievo si innamora di lei tenta dapprima di sfuggirgli, poi lo sconvolge con una lettera dove dettagliatamente descrive un programma di pratiche erotiche improntate al più fantasioso masochismo che l'allibito Walter Klemmer rifiuta, per poi alla fine violentare la donna nei gabinetti del conservatorio. La scena di estrema crudezza ribadisce una visione desolata del rapporto tra i sessi, fatto di violenza e di incomunicabilità: "I due sessi vogliono sempre qualcosa di fondamentalmente diverso... L'uomo e la donna stanno ancora uno di fronte all'altra congelati nella loro reciproca ostilità". Armata di coltello per punire il fuggiasco, Erika si limiterà a farsi un graffio e tornare a casa, all'inesorabile e simbiotico rapporto con la terribile madre, al sicuro inferno privato.
Come le altre opere "La pianista" è un testo volutamente sgradevole, "la mia letteratura è una letteratura del contrasto, della polemica, del sarcasmo" ha affermato del resto la scrittrice che non ama toni smorzati o espressioni accattivanti e non esita a sottoporre alla sua critica corrosiva tutto ciò che è sacro al suo nostalgico paese. La mortuaria immutabilità dell'idillio Biedermeier è deformata nella caricatura feroce alla Grosz e come nel catalogo di un mitteleuropeo museo degli orrori sfilano dinanzi ai nostri occhi i riti domenicali di una borghesia ottusa e conservatrice, il culto della musica, il Prater ridotto a sede di maniaci e di assassini, il perbenismo che nasconde corruzione e pericolose nostalgie, il cattolicesimo oscurantista, il cancelliere "vecchio e velenoso .
Forse per il lettore italiano non è possibile cogliere a pieno, nonostante l'abile traduzione, un tratto caratteristico del linguaggio di Jelinek, l'uso del montaggio che assurge per lei a valore artistico. Legata agli ambienti della sperimentazione, l'autrice mette insieme materiali disparati, slogan, stereotipi, messaggi pubblicitari, luoghi comuni, la stantia saggezza piccoloborghese dei proverbi, le preghiere ridotte a formule vuote, citazioni eterogenee dal Faust goethiano a Woody Allen. Le forme consuete dei romanzi d'amore in "Die Liebhaberinnen* (Le amanti), non ancora tradotto, della pornografia in "La voglia" e "La pianista" vengono riprese con intento parodistico per produrre distanza ed impedire identificazioni, in uno straniamento di marca brechtiana. E lo stesso avviene nei pezzi teatrali, che portano i titoli emblematici: "Cosa accadde dopo che Nora lasciò suo marito ovvero i pilastri della società"; "Clara S.", in cui i diari di Clara Schumann si mescolano alle lettere di Gabriele D'Annunzio, e "Burgtheater", la satira di un altro elemento della tradizione austriaca, il teatro popolare.
"Nuvole. Casa", nato come monologo teatrale è un collage di citazioni d'autore, Holderlin, Hegel, Heidegger, Fichte, Kleist, nonché di lettere di appartenenti alla Raf, per mettere in guardia, poco prima della riunificazione, sui pericoli di un rinascente germanesimo: "Ho fatto miei questi testi, servendomene. In questo senso non c'è più originalità - tutto è stato già detto da tempo, e si può solo gettar luce su ciò che è stato già detto". Mostrandosi erede di una gloriosa tradizione austriaca di diffidenza verso il linguaggio, inadeguato ad esprimere la realtà, che da Hofmannsthal attraverso Heidegger porta ancora una volta ad Ingeborg Bachmann, la quale sosteneva che un nuovo mondo non sarebbe stato possibile senza un nuovo linguaggio.
La violenza privata si salda con quella pubblica senza soluzione di continuità, tra i sessi si riproducono i rapporti di potere vigenti: i due aspetti non vengono mai scissi dalla scrittrice. Un suo preoccupato intervento, apparso anche sulla stampa italiana, dopo le recenti elezioni che hanno visto l'avanzata delle formazioni neonaziste e xenofobe, non è che l'ultimo di una lunga serie di scritti ispirati all'impegno civile che hanno avuto spesso come obiettivo la situazione austriaca. Significativo in tal senso, anche per la sede prestigiosa in cui è stato pronunciato, è il discorso in occasione del conferimento del premio Böll nel 1986. Allo scrittore renano, al suo impegno sincero in difesa di un umano sempre più minacciato, Elfriede Jelinek si rifà per mostrare che dietro la splendida facciata ed il bellissimo paesaggio del suo paese, irrigiditi in un'immagine seducente, si nascondono l'intolleranza e l'assoluta invisibilità per qualunque artista che si mostri critico, spesso tradotti in invito esplicito all'emigrazione. Ed all'elenco che comprende Handke e Bernhard aggiunge molti altri nomi per noi più oscuri. Dalle sue parole l'Austria appare solo un polveroso stereotipo ("Non siamo niente, siamo solo quello che appare: paese della musica e dei cavalli bianchi"), oltre il quale in realtà allignano pericolose tendenze neonaziste ("Molti di questi politici e cittadini andrebbero, per loro asserzione, un'altra volta a Stalingrado se non fossero completamente assorbiti a scovare comunisti nel proprio paese") ed antisemite ("... infatti di Ebrei non ne abbiamo quasi più, ma sono sempre troppi"). Il ventre è ancora fecondo, ha continuato a ripetere. E gli eventi più vicini non sembrano darle torto.
Al centro della narrazione, il tormentato rapporto di forza, in un interno viennese, tra la non più giovane pianista, Erika Kohut, e la tirannica madre, che trasformerà in catastrofe sadomasochista il tentativo di Erika di legarsi a un uomo. La ricerca spasmodica e frustrante della vita e di un'identità sessuale (fra autolesionismo e voyeurismo femminile) spinge Erika nei peep-show di periferia, nei cinema a luci rosse o dietro le fratte del Prater, prima di ricondurla a casa, sotto le lenzuola del letto matrimoniale che divide con la madre.E quando uno dei suoi allievi, Walter Klemmer, se ne innamorerà, Erika offrirà a lui, il "normale", uno scenario violento e autistico, secondo il ben frequentato schema padrone-schiavo.Con il suo linguaggio tagliente e impietoso e una scrittura coraggiosa, vivificata da continue, creative metafore, Elfriede Jelinek non indietreggia di fronte a nulla e nulla risparmia: né l'amore materno e le sue vane ambizioni, né il genere pornografico (che manipola e maschera), né i miti musical-culturali di Vienna, né le ipocrisie e false certezze della sua borghesia istruita e stupida.
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