Affidare il cinema e la personalità artistica di Lynch alle parole è quasi un paradosso, come un'impresa quasi impossibile è fargli dire qualcosa che spieghi il senso dei suoi film. Quindi un libro che raccolga i dialoghi con il grande regista americano può sembrare un'impresa editoriale azzardata o, quanto meno, piuttosto improbabile. Minimum fax ha voluto invece scommetterci, pubblicando una ricchissima raccolta di interviste lynchiane, curata da Richard A. Barney e a suo tempo pubblicata negli States (University Press of Mississippi, 2009). Le interviste sono ordinate cronologicamente e ripercorrono l'asse della produzione di Lynch a partire dal 1977, l'anno di quel magnifico delirio che fu Eraserhead, fino al 2008, sulla scia di Inland Empire. Non si tratta sempre di dialoghi condotti sullo schema ortodosso dell'intervista giornalistica, ma anche di documenti singolari relativi a conferenze stampa, incontri occasionali tra i vari giornalisti e il regista, raccontati spesso con taglio cronachistico e di colore (vedi ad esempio l'originale ritratto di Chris Rodley, realizzato per "Icon" nel 1997). Il passo cronologico ci consente di ripercorrere l'evoluzione della carriera di Lynch attraverso affascinanti flash che fotografano i diversi momenti dell'uomo, sia dal punto di vista caratteriale sia da quello creativo sia da quello puramente visivo: non poche sono le interviste in cui i giornalisti indugiano su quello che fa il regista mentre risponde (o dà non-risposte) oppure sul suo look, su quello che mangia o beve, sulle sigarette che fuma, sugli ambienti in cui si trova. Insomma, anche nelle interviste Lynch è uno che non riesce a sfuggire all'impatto dell'immagine, che spesso diventa preponderante, travalicando il lavoro interpretativo ed esegetico delle sue opere, a cui faticosamente e spesso inutilmente i vari intervistatori cercano di farlo approdare. Tuttavia, tra il non detto e l'accennato, dietro garbate recusationes, il cinema di Lynch assume, pagina dopo pagina, contorni sempre più netti e il lettore segue progressivamente lo sviluppo della carriera del regista e la crescita esponenziale della sua filmografia, tra successi, fallimenti e incomprensioni. Qua e là vediamo emergere dati biografici che ci diventeranno sempre più familiari, mentre scopriamo quali sono stati i punti fermi della crescita artistica di un autore tra i più singolari e importanti del cinema contemporaneo. Il sempre citato Eraserhead è un perno fondamentale, che lega l'esperienza del Lynch pittore a quella del regista, mentre il flop di Dune è più volte ricordato come punto di svolta radicale, quello che ha portato, attraverso Blue Velvet e Lost Highways alla grammatica filmica più matura e originale dell'ex capo scout di Missoula, Montana. Colpisce a più riprese lo scarto fra il periodo di formazione di Lynch, avvenuto nella più tranquilla provincia americana, in una famiglia normale, nell'alveo didattico delle scuole d'arte, e invece la cupa e tenebrosa inquietudine di molti suoi capolavori, forse ipostatizzata dalla magnifica sequenza di Blue Velvet, che, nella ridente e patinata cittadina di Lumberton, con un finto carrello che va dalla panoramica al macro ci svela il bulicame oscuro di insetti e microorganismi che si nasconde sotto la verde distesa di fili d'erba di curatissimi giardini. Leggendo queste interviste si ha sempre più marcata l'idea che David Lynch sia una persona tranquilla e posata, un po' stravagante e geniale, maniacale al punto giusto, un uomo molto legato agli spazi di evasione creativa dal mondo forse troppo normale in cui vive la sua quotidianità: è impressionante quando dice che per lunghissimi periodi ogni giorno mangia a pranzo la stessa identica cosa, mentre la sera prende solo un pezzo di parmigiano e del vino rosso. Eppure questo è l'uomo di Twin Peaks e Wild at Heart, quello che ha scolpito la maschera di Frank Booth sulla faccia di Dennis Hopper, l'inventore degli inquietanti deliri diegetici di Mulholland Drive, l'ammiratore di Marylin Manson che canta due brani catacombali nell'album postumo di Sparklehorse e, superati i sessant'anni, fa un disco electropop dalle sonorità avanguardiste come Crazy Clown Time. Ma, in fondo, se rileggiamo i suoi ricordi di gioventù, scopriamo che il tranquillo e operoso studente dell'Accademia di Belle Arti della Pennsylvania nel 1967 già girava roba a dir poco disturbante come Six Figures Getting Sick o The Grandmother (vedere per credere), e allora possiamo capire come non necessariamente la vita di un artista debba avere le stesse tonalità della sua immaginazione creativa. Da queste interviste emerge dunque anche una controlezione di giornalismo: mai chiedere a un artista quanto la sua vita, la sua cultura, le sue esperienze personali abbiano a che fare con la sua opera e tantomeno fare questa domanda a Lynch, se ci capitasse di fare una chiacchierata con lui. Dalla fumosità di certe sue risposte risalta però chiaramente una cosa: se decide di fare un film, lo fa soprattutto perché ha bisogno di abbandonarsi alle atmosfere sonore, cromatiche, di luce che in quel momento ha in testa. Questo spiega l'insuccesso di Dune e l'incredibile allontanamento dalla logica della narrazione lineare cominciato con Lost Highways, maturato con Mulholland Drive, giunto fino alle tre ore indecifrabili quanto avvolgenti di Inland Empire. A Lynch interessa solo perdersi nelle proprie sensazioni di artista, e perdersi nel fastello geniale delle sue gallerie di immagini filmiche è per noi sempre meraviglioso. Potremmo chiudere qui, ma, colpiti dalla bellezza e dall'utilità di questo libro, non possiamo esimerci da spendere qualche parola ancora per minimum fax, che ha coraggiosamente deciso di creare questa nuova collana di cinema (con Lynch siamo all'undicesimo volume), assai poco condiscendente con le sollecitazioni mainstream e invece rigogliosa di documenti tanto godibili quanto preziosi (vedere, exempli gratia, i due volumi sui "Cahiers du cinéma" o i libri di Mamet e Scorsese). Roberto M. Danese
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