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Jan Morris, giornalista e storica, accompagna il lettore nell'impero inglese: sotto la corona della diciannovenne regina Vittoria, salita al potere il 20 giugno del 1837, si riunirà un quarto delle terre emerse sul globo. È l'età di Dickens e di Darwin, dello sviluppo architettonico di Londra, di migliaia di individui con il volto nero di fuliggine che trascinano vagoncini carichi di carbone, di una massa di diseredati bambini e donne che affollano i sobborghi. Mentre la rivoluzione industriale trasforma il volto dell'Inghilterra, si crea un impero che si regge sul principio di civilizzazione: in tal senso va letta l'abolizione della schiavitù e il desiderio di plasmare il mondo a propria somiglianza, imponendo ed esercitando l'autorità britannica. Gli esiti delle trasformazioni si riversano sulle colonie, alterando la percezione del mondo, modificando le relazioni sociali: i thug, popolazione dell'India, diventano barbari dopo che giungono nel subcontinente donne inglesi, decise a mettere radici solide, di far famiglia con i propri mariti. Cambiano anche le leggi della guerra, come nel caso dell'Afghanistan. È un mondo controllato dall'uomo bianco, e dal mercante, benedetto dalla religione. Nella seconda parte, intitolata La convinzione crescente 1850-1870, Morris affronta molti temi: il concetto di razza, la triste esperienza politica di William Gladstone a Paxos, l'elaborazione di uno stile imperiale (il revival gotico di Westminster ne è un chiaro esempio), la rincorsa a svelare il mistero del Nilo rispetto al lago Tanganica e al Vittoria, le politiche di amministrazione messe in atto dal governatore John Eyre. Nell'ultima parte, invece, si esamina l'apice dell'imperialismo, la convinzione di comando che piega prima gli ashanti, l'India, la Tasmania, poi l'intera Africa. Gabriele Proglio
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