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recensione di Sertoli, G., L'Indice 1995, n. 9
La storia è semplice. Il protagonista-narratore dell'ultimo romanzo di Graham Swift è un docente universitario di mezza età che, in un momento drammatico della sua vita personale e professionale - gli sono morte la moglie e la madre, i colleghi del college dove insegna mettono in discussione le sue "credenziali", lo si è salvato in extremis da un tentativo di suicidio -, incomincia a raccontare la storia di sé, della propria famiglia e dei propri antenati. La racconta perché, quando la vita sta per arrivare alla fine, "tutto ciò che rimane sono le storie".
Con la semplice sostituzione di alcune parole, il paragrafo che precede mi era servito per riassumere la trama de "Il paese dell'acqua" (cfr. "L'indice", 1986, n. 7). Che esso vada altrettanto bene per quella di "Per sempre" significa che Swift non ha fatto altro che ripetere la formula che dieci anni fa gli aveva garantito un - meritato - successo di critica e di pubblico. Del "Paese dell'acqua" il nuovo romanzo ripropone lo schema di base: l'intreccio di due vicende, una ambientata nel presente, l'altra nel passato. Nessuna delle due, purtroppo, ha la forza e l'originalità che aveva nel romanzo precedente.
La prima è una scontata storia di adolescenza protratta, con tutti gli ingredienti del caso: l'infanzia edipica, il pathos di un grande amore finito tragicamente, il "rifugio nella letteratura" come luogo e forma di sopravvivenza. L'abilità con cui Swift gestisce questo 'déjà vu' è indubbia e non di rado accattivante, ma i clichés rimangono i clichés. Prevedibile è la Parigi del dopoguerra dove il piccolo Bill scorazza con la sua splendida e adorata madre fra Montparnasse e gli Champs Elysées, negozi di sete e profumi, cioccolate ai 'cafés' e spettacoli all'Opera ("Vedemmo "La Bohème" alla matin‚e...").
Prevedibile la love story con una ballerina di night diventata attrice famosa e morta suicida perché malata di cancro (anziché, come Mimì, di tisi). Prevedibile, infine (nei paesi di lingua inglese anche il "romanzo accademico" è ormai un sottogenere assestato), il "chiostro" cantabrigense fra le cui "antiche mura" e "rituali obsoleti" Bill si ritira a coltivare quella poesia la passione per la quale non può naturalmente mancare dal corredo di un Edipo moderno. Bill come Marcel, come Rodolfo, come...: quanti nomi ormai tante volte sentiti risuonano nel suo! quanti echi di scritture altrui (basti contare i flaubertiani moduli triadici) increspano il ritmo della sua prosa!
Ovviamente, l'Edipo moderno non può non essere anche amletico. Ufficiale addetto a servizi più o meno segreti, il padre di Bill si è ucciso in circostanze misteriose che il figlio collega, però, alla relazione della madre con un industriale americano della plastica destinato a diventare suo futuro patrigno: un patrigno per la verità gioviale e generoso (Bill gli dovrà la cattedra universitaria), ma nei confronti del quale egli si sente in dovere di meditare per anni "vendetta, tremenda vendetta".
Solo che Bill Unwin, a dispetto dei suoi miti teatral-operistici, non è Amleto. È semmai, anche se non lo sa, Prufrock. "No! Io non sono il Principe Amleto, n‚ ero destinato ad esserlo; / Sono un cortigiano del seguito... / ... / Deferente, felice di mostrarsi utile, / Prudente, cauto, meticoloso; / Pieno di nobili sentenze, ma un po' ottuso; / A volte, anzi, quasi ridicolo".
Di Prufrock Bill ha il tono querulo e patetico, ma al tempo stesso frivolo e pretenzioso (fin dalla prima frase: "State per leggere le parole di un morto"). Come Prufrock, è "invecchiato precocemente" e, se non è calvo, ha però i piedi piatti e di sicuro anche le sue gambe sono "magre". È "goffo", "noioso", "pavido" e "imbambolato"; al massimo può recitare la parte del "coadiutore dietro le quinte" e far da "spalla" a chiunque sia più grande di lui. Bill, insomma, è la (involontaria) parodia di Amleto. Dall'infanzia si è immaginato nei panni del vendicatore, per poi scoprire che il suo vero padre non era quello supposto bensì un macchinista ferroviario con cui la madre aveva avuto una precedente relazione. Che "enorme fraintendimento"! Che farsa essersi per quarant'anni identificato col principe di Danimarca e accorgersi in ritardo di essere figlio non già del re bensì di un carrettiere di passaggio!
Ma se questo è il (primo) 'plot' del romanzo, quale ne è il significato? Forse che la vita dell'uomo moderno ''assomiglia sempre più a una povera farsa" (come suggerisce il risvolto di copertina) e che all'eroe tragico non resta che recitare la parodia di se stesso? Ma questo non l'aveva già detto T.S. Eliot e non l'avevano ripetuto infiniti altri dopo di lui? Perché ripeterlo ancora? Perché ripeterlo, soprattutto, senza azzeccare il tono giusto? Come ha notato Hilary Mantel ("La Rivista dei Libri", maggio 1995), il difetto principale del romanzo consiste nell'insufficiente distanza fra autore e personaggio.
Per risultare davvero una figura farsesca, Bill Unwin avrebbe dovuto essere l'oggetto di un'ironia autoriale che dal principio alla fine, mediante una coerente strategia retorica, ne sgonfiasse presunzioni e velleitarismi sottolineando non solo la teatralità delle sue pose ma il falsetto della sua voce. A un certo punto, invece - in particolare nella storia d'amore fra Bill e Ruth - l'autore si immedesima nel personaggio e le due voci si confondono, col risultato che Graham Swift non riesce più a "scrollarsi di dosso la mano appiccicosa" di Bill Unwin e la musica diventa, allora, solo quella di una romanza pucciniana. La "voce del cuore", i facili troppo facil¡ accordi del melodramma. Qualcosa che non ci saremmo aspettati dall'autore del "Paese dell'acqua" (o no?)
Altrettanto poco convincente il secondo 'plot': la vicenda di un antenato di Bill, il topografo Matthew Pearce, che un giorno dell'estate 1844 "si trovò faccia a faccia con un ittiosauro" e - responsabili Lyell e Darwin - subì una crisi spirituale che gli fece perdere la fede, abbandonare la moglie e i figli, e imbarcarsi per l'America. Il diario in cui Pearce registrò la propria crisi è entrato in possesso di Bill, che si propone di pubblicarlo riqualificandosi in tal modo agli occhi dei colleghi con un bel lavoro accademico, scientificamente "in regola", sull'impatto dell'evoluzionismo sulla società vittoriana. Un simile libro, però, Bill non lo scriverà mai, limitandosi a includere passi del diario all'interno della propria autobiografia. E questo, allora, è il secondo tema che "Per sempre" ha in comune col "Paese dell'acqua".
Rievocando il dramma personale al suo trisavolo ("Me lo immagino un giorno di...", "me lo vedo che... ", "dovete figurarvelo... "), Bill si comporta come l'insegnante di storia Tom Crick, che era ricorso all'immaginazione per ricostruire le vicende della sua famiglia e, convinto che solo la potenza affabulatrice del "raccontare storie" può dare un senso al passato, aveva sostituito la (grande) Narrazione alla (piccola) storiografia scrivendo, alla fine, non un libro di storia ma un romanzo. Un romanzo che era, poi, la "storia" della sua stessa vita. Solo nel rapporto col passato, infatti, il presente si chiarifica (quel tanto che può chiarificarsi...), solo nel rapporto coi padri i figli si definiscono (il tema familiare è ricorrente in tutta l'opera di Swift), ed è quindi cercando di capire che cosa essi (i padri) sono stati che i figli possono tentar di rispondere alla domanda "perché sono (diventato) quello che sono? come mi è potuto accadere ciò che mi è accaduto?
Il guaio, tuttavia, è che mentre nel "Paese dell'acqua" il resoconto delle vicende degli Atkinson e dei Crick assumeva una straordinaria valenza metaforica diventando, non solo un'efficace "controstoria" dell'Inghilterra sette-novecentesca, ma una vera e propria parabola sul Progresso, la Storia e il rapporto fra Cultura e Natura, qui la vicenda di Matthew Pearce e dei suoi discendenti rimane chiusa in un ambito assai più angusto, psicologistico nel senso deteriore del termine, senza che Swift (che dello psicologismo finisce spesso prigioniero; vedi l'asfittico "Via da questo mondo", Garzanti, 1990) riesca a disegnare attraverso di essa, quel quadro di un mutamento "epocale" che ci aspetteremmo se non altro perché lo annuncia esplicitamente una pagina del romanzo.
Ma c'è un guaio anche peggiore. Mentre nel "Paese dell'acqua" la storia di Tom Crick e quella dei suoi avi si fondevano in maniera convincente dando al romanzo unità e coerenza, qui è difficile capire che cosa il dramma di Matthew Pearce abbia a che fare con quello di Bill Unwin, che cosa c'entrino Darwin e l'evoluzionismo con le fantasticherie amletico-pucciniane di un attempato adolescente la cui "testa intronata" (per citare di nuovo Eliot) è piena di "paglia" letteraria. Se non, forse, che si tratta dell'ennesima parabola sul "declino" della Modernità. La progressiva degenerazione dei discendenti (maschi) di Matthew Pearce, fino a quella "larva insignificante" che è il suo pronipote, conferma infatti la legge sul 'survival of the fittest'. Come ripete (inascoltato) il patrigno di Bill, oggi "le materie prime si stanno esaurendo, o sono già esaurite, o costano troppo. Ci vogliono [=non restano che] sostituti". In un mondo in via di plastificazione, solo gli individui di plastica sopravvivono. E un individuo di plastica, ovvero appunto un "sostituto", è stato Bill Unwin, la cui autobiografia è la - tardiva - presa di coscienza di questa identità e di questo destino.
Con il che, però, siamo sempre lì: agli "uomini vuoti" di Eliot, 'quiet and meaningless' ora come settant'anni fa. E se è pur vero che dobbiamo accettare di vivere in un'epoca di repliche, quella di stasera, francamente, è stata un po' fiacca.
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