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Anno edizione: 1983
Anno edizione: 2015
Quando, nel 1958, apparvero i primi titoli della Enciclopedia di autori classici, collana diretta da Giorgio Colli presso l’editore Boringhieri, ogni lettore intelligente si accorse che si trattava di un’impresa del tutto estranea a ciò che la circondava – ed era, per lo più, una cultura che oscillava fra Lukàcs e Gramsci. Per Colli, ciò che allora dominava era secondario e superfluo; mentre essenziale era ciò che allora appariva bandito. Anche se oggi può sembrare inverosimile, occorre ricordare che fra i nomi sospetti vi erano quelli di Nietzsche e di Schopenhauer. Ora, gli «autori classici», per Colli, erano innanzitutto gli stessi Nietzsche e Schopenhauer – e poi gli autori che essi avevano più letto e meditato: perciò i Greci, ma anche i grandi anonimi del pensiero indiano, e fra i moderni Machiavelli e Stendhal, Chamfort e Burckhardt, Spinoza e Pascal, scrittori che Colli voleva tornare a presentare senza mediazioni neutralizzanti. Cominciò così ad articolarsi (giungendo poi a ben novanta titoli in nove anni) una collana memorabile, che costruiva pezzo per pezzo un modello di cultura. Le brevi prefazioni non firmate di Colli ai volumi che gli erano più cari, qui per la prima volta raccolte, permettono di percepire con nettezza le linee di quella costruzione. Come i suoi frammenti postumi, pubblicati nella Ragione errabonda, testimoniano nella loro esuberante ricchezza la costanza e la coerenza della ricerca più segreta di Colli, così questi testi per la Enciclopedia di autori classici rivelano la stessa imponente compattezza nella sua faccia pubblica, nell’azione visibile che gli era più affine – e fu sempre, per acuta intuizione, editoriale piuttosto che universitaria.
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Colli fu parzialmente inserito nell'istituzione universitaria come professore incaricato di filosofia antica, egli non intese mai rivolgersi a un pubblico accademico. L'insegnamento universitario poteva attrarre Colli "educatore" per l'occasione che gli offriva di incontrare qualche giovane disposto a coltivare con lui lo spirito dell'amicizia; ma dall'accademia e dagli accademici egli prendeva delle distanze molto nette, dettate dal radicato convincimento secondo cui l'università come istituzione non è in grado di produrre una cultura radicalmente innovatrice. Tale convinzione non aveva nulla di contingente, e si richiamava non solo a una grossa tradizione romantica, ma anche e più specificamente a presupposti nietzscheani e meglio ancora schopenhaueriani. Se, con Schopenhauer il mondo della cultura si contrappone a quello dello Stato e delle sue istituzioni; se, con Nietzsche, il filosofo è intrinsecamente un impolitico; se nelle università celebrano i loro trionfi lo storicismo e lo spirito di sistema, i due ostacoli maggiori per un contatto autentico col fondo talora oscuro e spesso contraddittorio del reale; allora quell'uomo di cultura, quel filosofo che Colli volle essere per tutta la vita doveva necessariamente passare da estraneo attraverso l'università. Ed egli poteva trovare conferme eloquenti a queste sue convinzioni nelle biografie stesse dei suoi autori: anche qui non tanto in quella di Nietzsche, che visse l'esplosione del suo filologismo giovanile all'interno dell'università di Basilea, ma soprattutto in quella di Schopenhauer, che si vide lungamente e tenacemente negato dalla cultura ufficiale del suo tempo il riconoscimento alla sua stessa esistenza come filosofo.
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