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Più che traduzione del Pluto di Aristofane, la Fabula Penia (o "Commedia della povertà")di Rinuccio Aretino (1390-1457) è una spregiudicata operazione di repêchage: l'umanista si appropria del testo greco, lo fa suo; non cita né il titolo originale, né l'autore, dileguano entrambi dietro la ricapitalizzazione di una fabula, che, mimeticamente, si dà come rumor udito in Grecia da due vecchi, Blepsidismus e Gurgulio. La Fabula Penia è una rara commedia umanistica sviluppata oltre il solco della tradizionale sequela plautina e terenziana; eppure, tutto il mondo utopico di Aristofane qui implode e viene sovvertito: Cremilo, che, compliceAsclepio, avrebbe voluto restituire la vista a Pluto (dio della ricchezza) e garantire l'avvento di un mondo equo, viene, adesso, condannato da Povertà, che rivendica il proprio ruolo di motore del mondo; l'idea è che l'essere umano progredisca per necessità e per indigenza. Certo, da Aristofane ad Aretino le domande sulla cecità e sull'ingiustizia delle permutazioni (Inf. VII 88) della sorte restano le stesse, non dissimili da quelle, sempreverdi, di Qohèlet: "Tutto ho visto nei giorni della mia vanità: perire il giusto nonostante la sua giustizia, vivere a lungo l'empio nonostante la sua iniquità" (Ecl. 7.15); ma Aristofane e Aretino diventano ora estremi di una retta concettuale, che si torce fino a raggiungere esiti speculari. Così, paradossalmente, dal Pluto si genera Penia, Ricchezza provoca l'espressione della Povertà. Siamo di fronte a un divertissement, naturalmente, che si sviluppa come retorica controversia, ma fa perno sul linguaggio comico di Terenzio. Ludovica Radif approda a Penia dopo un approccio teatralmente più creativo al testo (Soldo Bifronte, Tilgher, 2004); qui, tutto è diverso: si pubblica l'edizione critica, la traduzione italiana, un ampio ed esaustivo commento.
Francesco Mosetti Casaretto
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