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Non c'è dubbio che il motivo che muove l'indagine di Todorov sia quello di rispondere al testo di Huntington in relazione ai conflitti di carattere globale, ma la prima cosa da chiarire, che è anche l'aporia di ogni discorso interculturale, è relativa all'atteggiamento da adottare nei confronti della violazione dei diritti universali. È fin troppo evidente che essi derivino da un percorso storico occidentale contingente, che ha avuto i suoi momenti di progressione in avanti e delle ricadute in termini di aberrazione. Nel rapportarci agli altri spesso la supremazia occidentale ha ritenuto di poter adottare i suoi valori come transculturali, cadendo vittima dell'etnocentrismo. Tale mentalità è stata funzionale alla colonizzazione del pianeta, nella presunzione che tutte le culture dovessero piegarsi al progresso occidentale sia economico sia sociale, annullando le differenze tra le culture. Dall'altro lato, si è diffusa anche l'idea che per poter salvaguardare la diversità delle culture sia necessario consentire loro di applicare i propri codici morali. Questo presupposto, che ha la sua radice nel relativismo culturale, ritenuto il precipitato del pensiero postmoderno, scade presto nella negazione dei valori universali, perché tutte le istanze morali sono ammissibili e indifferenti. Il pericolo maggiore in questa direzione è quello di non ricercare più gli spiragli per un confronto, la chiusura totale nella volta del proprio universo simbolico, rischiando l'incomunicabilità. È il dilemma nel quale si torva il discorso del multiculturalismo, che Todorov cerca di affrontare ponendo al centro dell'attenzione un minimum di etica tra una strizzata d'occhio a Jürgen Habermas e una a Ulrich Beck, autori che si muovono in un orizzonte interpretativo ancora troppo occidentale.
Sto leggendo in questi giorni di T. Todorov, La paura dei barbari, Oltre lo scontro delle civiltà, pubblicato in Italia da Garzanti. Non ho sottomano l'originale, ma nel cap. 4 una grave lacuna, p. 187, paragrafo: "Le caricature danesi". Le prime parole recitano: "Il 30 settembre 2005 il più importante quotidiano olandese 'Jyllands-Posten'...". MA QUESTO GIORNALE, COME SA TUTTO IL MONDO, E' DANESE e lo stesso titolo del paragrafo lo anticipa! Forse l'autore stesso è stato distratto dall'affare Van Gogh? O forse Emanuele Lana, il traduttore, ha confuso l'Olanda con la Danimarca? Chissà...
Un libro piuttosto accademico, un linguaggio un po' aulico che contiene, a mio avviso, numerose forzature della realtà. L'autore, nel parlare della formazione ed evoluzione delle culture, non ne pesa adeguatamente le varie componenti, cercando in modo nemmeno troppo velato una continua - e se vogliamo non richiesta - difesa degli islamici. Il "diverso", in questo libro, non è più un concetto astratto ma prende sempre più le sembianze del musulmano. La polemica che l'autore fa con Huntington ( autore dello Scontro delle civiltà ) lo vede, a mio avviso, per nulla convincente. La realtà dei fatti appare diversa da un certo wishful thinking che sovente traspare nelle pagine di questo saggio, che alla fine parla delle culture come un minestrone dove vengono messi un po' troppi ingredienti, risultandone qualcosa dal sapore indefinito, esattamente il contrario di quello che l'autore si prefigge, ovvero di dare corpo ad una definizione della cultura come qualcosa di abbastanza ben definibile. Interessante comunque ma poco convincente.
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