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In questi nove racconti, densi come altrettanti romanzi, Djuna Barnes ha racchiuso la sua arte esigente e solitaria. Bastano poche righe, qui, per sentirsi calamitati in un mondo dove lo stile sembra capace di offrirci una «seconda vista»: davanti a noi si dispiega la sontuosa e sordida superficie delle cose – ma dietro di essa riconosciamo, nitido, un gioco convulso di correnti sottomarine, quelle che danno a ogni attimo il suo pathos e il suo timbro. Col suo amico James Joyce la Barnes condivideva il precetto secondo cui «uno scrittore non dovrebbe occuparsi dello straordinario, se ne occupa già il giornalista». Perciò, se viste da un occhio estraneo, queste storie presentano ben poco di appariscente: una madre in visita dalla figlia, che non vede da anni; un povero sarto armeno a New York, irretito e umiliato da una giovane perfida; la morte di un proprietario terriero; i dialoghi di un’aristocratica vicina alla decrepitezza. Ma chi mette piede in questi racconti non riuscirà più a ritirarlo: tali sono le tensioni, queste sì «straordinarie» ed estreme, che subito lo catturano. Le emozioni e le immagini si rispondono secondo una loro occulta matematica, nel bric-à-brac dell’apparenza guizzano massime elisabettiane. Nulla viene spiegato, ma tutto traspare – almeno nei rari gesti delle passioni, queste «spezie che spargiamo sull’orrore del tutto». Una teologia oscura e crudele presiede a ciascuna di queste scene. L’enorme dissipazione della vita, il suo incedere devastante e superbo battono nel polso di questa prosa. Le brevi pagine della Passione confermano ciò che T.S. Eliot, Malcolm Lowry, Dylan Thomas – tra gli altri – hanno sussurrato da qualche decennio: che Djuna Barnes sia una delle più grandi scrittrici del nostro tempo.
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Racconti come immagini in bianconero, affogate in una luce sghemba che più che rischiarare la scena la immerge in ombre gotiche, lasciando la mente incartata nella ricerca del non detto. Una capacità rara di rendere con rade pennellate di parole, i foschi contorni umani facendo emergere il respiro dell’anima.
Un consiglio: limitatevi a scovarne l'eleganza suprema. C'è.
Interrotto dopo poco, sono racconti, quando gia' dal secondo comincio a trovarli senza ne' capo ne' coda, ho raggiunto la maturita' (vedi Pennac) di piantare in asso il libro. Oscuro.
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