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recensione di Berardinelli, A., L'Indice 1986, n. 3
Dopo il notevole sperpero di interpretazioni più meno improvvisate e partecipi (non senza esibizioni di circostanza) intorno al Pasolini "corsaro", "luterano" e critico del consumismo, ecco la riedizione di un suo vecchio e stagionato libro: "Passione e ideologia". Pubblicato per la prima volta da Garzanti nel 1960 e ora da Einaudi in edizione più accurata, il volume raccoglie studi e saggi che Pasolini scrisse nell'arco di dieci anni, dal 1948 al 1958, nel periodo cioè della sua massima inventività letteraria. In quegli stessi anni Pasolini scrisse e pubblicò alcuni dei suoi libri più famosi: i romanzi "Ragazzi di vita" (1955) e "Una vita violenta" (1959), e i numerosi poemetti raccolti sotto il titolo complessivo "Le ceneri di Gramsci" (1957). Rispettivamente del 1952 e del 1955 sono inoltre i due ampi studi panoramici "La poesia dialettale del Novecento" e "La poesia popolare italiana", che costituiscono quasi un libro a sé e che occupano tutta la prima parte (più della metà dell'intero libro) di "Passione e ideologia".
Per i lettori più giovani, abituati a leggere Pasolini come un autore globale, come un autore, cioè, che negli ultimi anni della sua vita non voleva e non poteva tenere distinti i suoi diversi linguaggi e le sue diverse competenze, non avendo più che un solo ossessivo linguaggio e una sola globale competenza di giudice sociale e di pubblico accusatore - per questi lettori, dicevo, le pagine di "Passione e ideologia" saranno, secondo i casi, una delusione o una riposante sorpresa. Qui Pasolini non è affatto disperato, n‚ violento, n‚ apertamente fazioso o apertamente autobiografico. E non fonde tutto ciò che sa, percepisce e pensa in una sola colata incandescente. Qui Pasolini si presenta davvero in veste di critico letterario: impegnato e raffinato, documentato e diligente, con la modestia e l'orgoglio di chi vuole essere accettato dalla società culturale e perciò non si accanisce mai, come farà spesso in seguito, con i suoi pur numerosi obiettivi polemici (ex o post-ermetici, neorealisti, marxisti "ortodossi"). Sebbene abbia costantemente presente una sua personale e funzionale nozione di realismo, che orienta le sue argomentazioni letterarie verso una analisi di classe della società e della storia italiane, in questi scritti Pasolini non sconfina mai dai termini assegnati alla critica letteraria in quanto tale. La sua passione sa essere e vuole essere composta, ragionevole: incontra l'ideologia (un gramscismo estetizzato) proprio perché è una passione che intende vestire abiti civili e democratici, che vuole tenere aperto un dialogo con tutta la migliore cultura letteraria di quegli anni. E il suo stile critico è molto distante non solo dal violento mimetismo dei romanzi sul sottoproletariato romano, ma anche dalle luttuose drammatizzazioni dei poemetti coevi.
I pregi del libro, perciò, sembrano oggi indistinguibili dai suoi limiti. La tempestività e l'efficacia delle ipotesi critiche pasoliniane sono dovute anzitutto alla passività anche acritica con cui Pasolini assume e accetta i termini dominanti e diffusi nelle discussioni di allora intorno al superamento dell'ermetismo-decadentismo e alla crisi della poetica neorealista. Per realizzare una proposta progettuale nuova, Pasolini elabora uno di quei suoi tipici schemi che razionalizzano l'irrazionale e permettono di tenere insieme, nella forma della compresenza paradossale (autogiustificatoria) e dell'ossimoro, un modo di essere irriducibile e un progetto aperto, un'esperienza sostanzialmente immobile e un'ideologia onnivora. In questo caso, i due termini della contraddizione senza superamento dialettico e senza sintesi, che Pasolini propone sono: a) l'ossessione stilistica, la passione e coazione estetica che gira e torna continuamente su se stessa e b) la sperimentazione realistica e descrittiva, che spinge continuamente in avanti il linguaggio letterario e il suo spazio di ricerca, per essere sempre "col sentimento, al punto in cui il mondo si rinnova": ripresa e correzione del descrittivismo pascoliano , che risolveva l'apertura in chiusura, con la riduzione finale del mondo all'io e della realtà esterna alla vita intima. Questo schema della presenza simultanea e della polarità metteva in grado Pasolini, negli anni Cinquanta, di rendere civilmente accettabile ed esteticamente produttiva l'immobilità delle sue contraddizioni, dotando il suo scandalo nevrotico (non si dimentichi che Pasolini era ripetutamente sotto processo per "immoralità" e per "corruzione") di armi tattiche e retoriche inesauribili: che gli permetteranno fino alla fine di compiere dei continui spostamenti dei termini del suo discorso, provocando e spiazzando magistralmente i suoi avversari polemici, senza per questo uscire mai dalla sua tematica e facendo appello alternativamente, e in angolature sempre diverse, ora alla immobilità fatale della coazione estetico-nevrotica, ora ai puri diritti della critica intellettuale.
Sul piano strettamente critico, la solidità della documentazione (soprattutto nei due lunghi studi iniziali) e la duttilità analitica (soprattutto nelle esemplari schede dedicate a una ventina di poeti italiani del Novecento - oltre che a Pascoli, Carducci e Gadda) rendono "Passione e ideologia" un libro tuttora molto utile e interessante, nonostante il limite nazionale della visuale storica e la debolezza dell'impianto teorico. Come ha osservato Pier Vincenzo Mengaldo (in un saggio su Pasolini critico letterario comparso nella "Revue des études italiennes", n. 2-3, avril-septembre 1981), in "Passione e ideologia" l'intelligenza critica pasoliniana, sebbene esibisca anche con una certa monotonia alcune nozioni teoriche orientative (derivate da Contini, da Gramsci e anche, corsivamente, da Spitzer e Auerbach) si muove in un orizzonte teorico alquanto povero e approssimativo. In particolare, la limitazione al panorama italiano rende poco attendibili le sue idee di decadentismo e di realismo, categorie di cui, con buona parte della cultura degli anni Cinquanta, egli faceva un uso puramente tattico e polemico. In questo come in altri suoi libri (per esempio negli ultimi) è semmai eccezionale la capacità, tipica di Pasolini, di ricavare un massimo di osservazioni generalizzabili da una base di pensiero piuttosto elementare e ristretta, estremizzando le sue tesi con l'ingrandimento suggestivo di alcuni dettagli e con la ripetizione metodica di alcune formule ideologiche.
Del resto, lo spiccato mimetismo e sperimentalismo culturale (non solo strettamente artistico) di Pasolini, si fa sentire anche nel suo stile di critico. Uno stile che, in "Passione e ideologia", deve moltissimo a quello del suo modello primario, Gianfranco Contini, e che di quel modello conserva tutta una serie di tratti: come l'andamento insieme puntiglioso e svagato, il preziosismo tecnico-lirico del lessico, l'eccesso degli incisi e delle parentetiche e perfino, immotivatamente, certi vezzi e civetterie professorali.
Sono proprio le caratteristiche della scrittura critica a rendere spontaneo, inevitabile il confronto di questo con l'altro libro di sola critica letteraria scritto da Pasolini, cioè la raccolta postuma "Descrizioni di descrizioni". Si tratta di due stili di intervento e di due strategie culturali che non potrebbero essere più lontane e inconciliabili. Inoltre, mentre "Passione e ideologia" è un vero e proprio volume di critica letteraria, come abbiamo osservato, nel migliore e più congruo stile critico italiano, "Descrizioni di descrizioni" manda in pezzi quel modello, aggiornato ma sostanzialmente tradizionale, sostituendolo con una sorta di saggismo parlato (lo stesso che si trova in "Scritti corsari" e "Lettere luterane": ma meno ripetitivo e meno schematico), un saggismo che non si muove più nel clima della ricerca e della verifica testuale, ma piuttosto nel clima dell'improvvisazione, del diario in pubblico, della diagnosi psico-morale e della denuncia. Con "Descrizioni di descrizioni" l'orizzonte degli interlocutori sembra essere ormai venuto meno. Non esiste più una società letteraria con cui dialogare. A quasi vent'anni da "Passione e ideologia", Pasolini sarà incalzato dal proprio ossessivo "senso della fine" e non riuscirà più a considerare la critica letteraria come un genere regolato da un preciso, accettabile codice di buone maniere democratico-scientifiche.
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