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Una bella invenzione grafica della nuova (ed ennesima) veste dello "Specchio" mondadoriano è la comparsa, in quarta di copertina, dell'autografo di una poesia. Non sono per nulla esperto di grafia, ma sono convinto che la grafia, come la voce, sia uno strumento potente di caratterizzazione del linguaggio. E può aiutare all'intelligenza di un testo. In questo caso la grafia di Viviani si manifesta come scrittura corrente, se ne intuisce la velocità e la distensione, ma anche la chiarezza e per così dire l'estroversione sobria, l'assenza di introflessione. Sembra ambire a un compatto e rapido tracciato, proiettato verso la sua conclusione, come in un'unica partita. Del resto ciò è sintomatico della misura stessa di queste poesie, scandite in sei sezioni, ma tutte di egual passo: un breve giro di versi, tra i cinque e i dieci, di solito; e in un unico periodo, per lo più. Vi è quindi una vocazione al compendio e all'essenziale, ma anche al tratto conclusivo, nonché alla sua iterazione, data la scelta monoformale del libro.
Una scelta non nuova in Viviani, già attiva da tempo da vari libri (Preghiera del nome, Mondadori, 1990; Una comunità degli animi, Mondadori, 1997; cfr. "L'Indice", 1997, n. 5) e per certi versi in dialettica con la forma lunga, ad andamento poematico, presente in L'opera lasciata sola (Mondadori, 1993; cfr. "L'Indice", 1993, n. 11) e nel recente Silenzio dell'universo (Einaudi, 2000; cfr. "L'Indice", 2000, n. 4), il poemetto germinato d'improvviso nel bel mezzo del lavoro di questo, come qui lo stesso Viviani racconta in nota. E possiamo ben intendere come quello sgorgo ampio e teso, frontalmente spirituale, fosse anche come necessitato a venir fuori dall'inflessibilità ossessiva di questo libro. Già, perché la fissità formale si sposa a un basso continuo non meno invasivo e che riguarda l'indeclinabilità del nesso portante vita-uomini, ovvero la "condizione esistenziale" di "passanti" degli "esseri umani", come chiosa lo stesso poeta. A questo proposito ricchissimo di varianti è il campo semantico dei passanti: non mancano l'io (come personaggio e non voce lirica dell'io) e i vari pronomi ("tutti", "molti", "noi", "chi", "alcuni", "altri", "loro"), ma molti sono i diversi nomi: "il rappresentante", "i vigorosi", "esseri", "uomini", "signori", "spettatori", "imperdonabili", "caterve", "animali", "popolazioni". In ogni caso la varietà non è che riproduzione del destino che nella "terra chiamata madre" "caterve di corpi umani si spengono, / esistenze sbiadite, ammassate, affondate / nella quantità, nella lentezza, / senza nome e senza età / condizione non detta".
Un simile tono ci avvisa che non si tratta di un libro esistenziale: non vi è l'angoscia di un cuore a nudo, non vi sono pieghe e sfumature, ma un saldo dominio della lingua, nella sua esattezza particolare. Vige un inflessibile dettato, che per certi versi ha più commerci con l'antica tradizione della "vanitas vanitatum" e con quel dire monitorio. Ma non vi è misura struggente, come ad esempio fu nel Tasso: "Passa la vita e si dilegua e fugge come giel che si strugge": Ecco, qui Viviani obietterebbe che non è la vita a passare quanto gli uomini. Se è chiaro il continuo fluire degli umani, la vita è invece assai più vasta e non riducibile alla prospettiva umana. Così il libro da un lato descrive tanti modi dei passanti, ma anche, in mirabile contrappunto, si avvita sul mistero-vita, sul suo innesto e il suo distacco dai passanti. La poesia rilevata nell'autografo di copertina, ad esempio, è uno dei momenti in cui si mette in scena il destino umano tra spasimo ("Il grido attraversò il buio") e preghiera nella coltre di impenetrabilità e silenzio tra umano e divino: "né l'invocazione / né la divinità poterono fare nulla / con l'aria impenetrabile - tanto sfiorì / una vita, / tanto chi doveva sentire / non senti". Sono versi molto belli; vengono alla mente memorie foscoliane e caproniane, ma il dato nuovo è la distanza e la serenità della pronuncia: si dice il dolore e lo scacco, ma in modo neutro, offerto dalla prospettiva della voce del testo, per forza di cose situato fuori campo. Vige una sicurezza, che produce assiomi e sentenze - che possono risultare anche imbarazzanti o irritanti, oppure provocatori -, ma il tono basso, mai elevato e stentoreo, si impone persuasivamente come voce indeflettibile e ineluttabile, in quanto voce "sostanziale" (la sostanza è termine ricorrente) e nelle cose. Così l'ultima poesia - che ha un margine esterno di elegia nella dedica a Bernard Simeone, il giovane italianista d'oltralpe così prematuramente scomparso - sapientemente annoda la sentenza d'attacco "Niente va altrove / di questa vita finita, e non c'è la fine" con la semplice classicità della similitudine: "come dei frutti la polpa matura / si avvia a disfarsi e a staccarsi / e anche le foglie / seccano e cadono / ma se lasciate a sé / niente muore".
La natura è l'altro protagonista del libro, una natura che è ordinamento del mondo ma anche ha il sentore del bosco e del monte (e mi viene da pensare all'Amiata tanto caro a Viviani), tuttavia in termini sempre essenziali e mai locativi, né tanto meno rappresentativi: "l'autore si ritira illustrando / l'autonomia della natura. / Ma la natura non ha niente che vedere / nemmeno con la più concreta scrittura". Come si vede è un preciso progetto, che ribadisce l'estinzione autorale su cui Viviani procede da anni e che ora ha i modi della voce fuori campo, sopra ricordata, consentanea a un emergere della natura, senza per questo poter parlare di voce naturale.
È stato osservato, proprio dal compianto Simeone, una forte contiguità tra l'ultima opera di Luzi e questa fase di Viviani, come esempi di uscita dal soggettivismo e accessi, magari antifrastici, a una totalità di tipo spirituale. Vi è però un margine di differenza assai netto. In Luzi vige un principio di carità che tende alla comunione, in Viviani vige un principio di distinzione e un procedere verso il celeste, per via di esclusione, più che di inclusione. Vi è perciò una non comune durezza, che è anche il fascino più intrigante di questi versi fieramente antiumanistici, in cui ogni somma fa zero, né hanno esito la storia o il pensiero, davanti al sovrano codice della natura: "Sono nei colori dei fiori serene annunciazioni / e cruente uccisioni, nei prati / dolci apparenze di stragi provenienti / da mondi ininfluenti o macchie di sangue / passate attraverso secoli di azioni militari / ritornalo, ogni primavera, con un profumo / che annulla la memoria".
In questi versi di cancellazione vi è un che di liberatorio, che non sa di assoluzione (come spesso in Luzi), bensì di abdicazione e sostituzione, che sconta il forfait umano in ogni suo risvolto (ovvero il suo accesso a un mutante disumano, che implicitamente ha anche un margine civile); non resta che una radicale disabitazione, infine rimessa al codice della natura: "vivono per me la vita la sorgente / e l'ombra della montagna che la nasconde".
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