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Si potrebbe iniziare da qui, da una Sicilia da raggiungere prima di tutto con gli occhi e gli orecchi della mente, luogo della fantasia e del desiderio. Del resto, Stendhal della Sicilia ha scritto senza averci mai messo piede. Ma se Stendhal, pur avendolo vagheggiato, non riuscì mai a compierlo il suo viaggio nell’isola, per il Massimo Onofri di Passaggio in Sicilia, che questa terra ha invece girato e respirato da sempre in lungo e in largo, si tratta adesso di uno stendhaliano ritorno: «grand tour della nostalgia, del cuore e della memoria». In continuità con il precedente Passaggio in Sardegna (Giunti, 2015), nel riandare qui sulle tracce di una personalissima e più autentica geografia siciliana, Onofri ci consegna l’ennesimo «diario di viaggio con personaggi», salpando non a caso con i suoi compagni d’avventura proprio dalla Sardegna e con l’ulteriore strategico indizio di continuità (tra i due libri che compongono un dittico) dell’irrompere sulla pagina di un io che, a marcare lo iato tra mondo scritto e mondo non-scritto, ha bisogno di fondare la sua autenticità principiando, sintomaticamente, da una negazione: «Non è come nei primi giorni di maggio del 1860...».
Ciò che più gli sta a cuore è restituire al lettore una Sicilia depurata dai luoghi comuni, svincolata dall’angusta oscillazione tra «giudizio e pregiudizio», così com’è stata invece raccontata agli italiani sin dai tempi di La Sicilia del 1876, la celebre inchiesta di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Principiando da una simile volontà di scombuiare la consueta geografia isolana, non stupisce che Palermo diventi una città la cui esistenza è «al limite del fantastico», che Messina sia rimasta una «città senza», evanescente regno del «vuoto e della catastrofe», che tuttavia ritrova «razionalità e concretezza» nella sua provincia; che la sempre «cara e imprescindibile» Catania sia qui celebrata come culla per antonomasia dello «stilnovismo patologico», specialissima malattia della quale è irrimediabilmente affetto lo scrittore; che la storia arcinota di una cittadina come Gibellina, ricostruita altrove dopo il terremoto, sia invece il triste segno di come un’intera comunità sia stata messa a servizio dell’arte e della sua «disumana fatuità». E che dire dello scenario di speculazione e degrado offerto da città come Agrigento o Gela, emblemi tragici di un’antropologia tramutatasi, «dentro il paesaggio», in natura?
Recensione di Domenico Calcaterra
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