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La leggenda del colibrì narra di un incendio nella foresta che terrorizza tutti gli animali, lasciandoli impotenti ad osservare il disastro. Solo il colibrì si dà da fare versando le gocce d'acqua che riesce a portare con il proprio becco. L'armadillo gli dice irritato: " Colibrì, ma sei matto? Credi davvero che con poche gocce d'acqua spegnerai l'incendio?" "Lo so, risponde il colibrì, ma io faccio la mia parte". Ed è proprio questa la grande lezione che Pierre Rabhi impara nel corso della sua vita, che dal Sahara lo porta in Francia a lavorare inizialmente come operaio e poi come contadino. Dopo un primo tentativo di impegno politico, comprende che "l'ecologica e l'umanesimo appartengono a un ordine di cose incompatibile con i limiti del sistema politico attuale. Riguardano ogni essere umano, ogni creatura: ne va della salvezza o della distruzione di tutti". Quando inizia la sua attività agricola Rabhi utilizza fertilizzanti, pesticidi e macchine, finché si rende conto che è possibile coltivare la terra in un altro modo e che si possono rispettare gli animali. "La nostra vera vocazione non è di produrre e consumare fino alla fine delle nostre vite, ma di amare, ammirare e prenderci cura della vita in tutte le sue forme". "Non è impossibile - scrive Rabhi - che l'agricoltura industriale venga un giorno definita come una catastrofe ecologica e sociale di vasta portata. Essa lo è veramente se si ha l'onestà di farne un bilancio: distruzione delle terre, inquinamento delle acque e dell'ambiente, eliminazione delle piccole fattorie, devitalizzazione dello spazio rurale trasformato in un deserto di granoturco, di grano e di girasoli, produzione di proteine animali secondo i criteri della produzione di massa". Senza tener conto del fatto che occorrono dieci chili di cereali per ottenere un chilo di carne e che, se un bue può nutrire 1500 persone, con il cibo che gli si dà si potrebbero nutrire 15.000 persone.
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