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Descrizione


"Dalle testimonianze di questo libro emerge che sempre, dopo sofferenze e umiliazioni tali da fiaccare ogni energia, tutti questi condannati sono riusciti a ritrovare l'entusiasmo della creazione letteraria una volta usciti dal carcere, e alcuni di loro lo hanno conservato durante la prigionia, scrivendo in prigionia, scrivendo della prigionia, talora mandando i propri versi a memoria quando non avevano neppure la carta per serbarne traccia. Come a dire, ancora una volta sfiorando il cinismo, che la reclusione fa bene alla letteratura. [...] Non sto facendo della letteratura sulla sofferenza altrui. Non si gettino in cella gli scrittori perché l'orrore li renda più percettivi, così come si castravano i fanciulli perché diventassero buoni cantori per la Cappella Sistina, o i comprachicos deformavano i lineamenti dell'Uomo che Ride. Questo stesso libro è un appello perché nessuno venga più privato della libertà a causa di ciò che ha scritto. Ma l'appello viene da chi ha affinato le proprie capacità di rappresentare l'orrore e la stupidità (la banalità del male) proprio usando come arma la punizione che gli era stata inflitta. Da cui la contraddizione dei tiranni, che gettando gli scrittori nelle segrete, affinché tacciano, collaborano ad amplificarne la voce." (Dalla prefazione di Umberto Eco)
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Dettagli

SE
2010
25 novembre 2010
130 p., Brossura
9788877108685

Voce della critica

Sono diciotto le voci che nel libro Parole di libertà, curato da Marina Giaveri, Chiara Macconi e Mariarosa Rossi, con una Prefazione di Umberto Eco, raccontano le altrettante, singole tappe di una rinnovata Odissea, quella vissuta, cioè, da diciotto fra uomini e donne nei luoghi dove i totalitarismi contemporanei continuano a fare le loro vittime. Il volume è stato pubblicato per celebrare il cinquantesimo anniversario dell'istituzione del ComitatoWriters in prison, operantenell'ambito delle attività delPen Club, a margine di un convegno svoltosi dall'8 al 12 novembre 2010 presso la Fondazione Rockfeller di Bellagio. Non è certo materia "accademica" o meramente romanzesca quella che riempie le pagine di questo libro: la recente immagine dello scranno lasciato vuoto a Stoccolma da Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace 2010, tuttora in carcere a scontare una condanna a undici anni per reati di pensiero, dimostra quanto e come il totalitarismo abiti ancora i nostri giorni. Il XX secolo – e l'ancor giovane XXI – sembrano, dunque, segnati da una tragica contraddizione: essere il tempo del riscatto e della proclamazione dei diritti ma essere anche il tempo in cui i diritti fondamentali possono ancora essere calpestati. È quanto testimoniano in queste pagine José Saramago, Adonis, Azar Nafisi, Ismail Kadare, Abdellatif Laâbi, Julia Dobrovol'skaja, Ramin Jahanbegloo, Jack Mapanje, Grigorij Pas'ko, Visar Zhiti, Zhou Qing, Angel Cuadra, Lydia Cacho, Hamid Skif, Easterine Kire Iralu, Younis Tawfik, Carlos A. Aguilera, intellettuali, scrittori o poeti, tutti rappresentanti di quella dissidenza che percorre terre e culture lontane da quell'Europa ormai pacificata ma sempre memore della propria storia e delle esperienze totalitarie vissute nel Novecento. La lettura di questi testi risulta come guidata dalla scansione tematica offerta dall'indice del libro che prima li fraziona e poi li raggruppa: l'introduzione di Umberto Eco, sin dal titolo La cella e la scrittura, dà conto di "come una sorta di perversa forza magnetica ponga in stato di mutua attrazione il carcere e la letteratura". Quelli che Eco definisce "scrittori da galera", uomini cioè che hanno conservato l'entusiasmo della creazione letteraria "scrivendo in prigionia della prigionia", proprio perché costretti al silenzio amplificano la loro voce: "Come dire che la reclusione fa bene alla letteratura". Il secondo titolo dell'indice, "Scrittura e potere", accenna la relazione, troppe volte incompatibile durante un regime – assoluto, militare o teocratico che sia – fra la creatività, la potenzialità sovversiva della parola e il dispotico ma impaurito controllo di essa. "Persecuzione e prigionia", terzo titolo del terzo gruppo di testi, determina gli strumenti, e insieme la condizione, indispensabili per perpetrare il crimine liberticida. Ultima tappa del percorso, infine, quella intitolata "Esili e asili" dove il prescritto approdo in altre terre sembra promettere, allo scrittore oppresso, un'opportunità e un luogo di conciliazione. Ma la materia narrativa racchiusa nelle pagine del libro stenta a mantenere la disposizione per sezioni le quali, pur favorendo l'individuazione di un percorso, rischiano di costringere il movimento autonomo della scrittura. Esso consiste nello sparpagliarsi fra le pagine dello slancio della memoria, della speranza, della volontà e finanche della poesia, chiamate nel testo a esprimere – insieme alla paura, alla spoliazione di sé, all'umiliazione, alla condanna all'oblio – la condizione degli uomini privati della libertà, e specialmente della libertà di pensare. Sono uomini – come scrive Visar Zhiti – costretti a nascondere i loro "crimini in versi", segregati – dice Ismail Kadare – "per aver voluto fare arte durante il tempo in cui veniva richiesta violenza". Sono uomini che scrivevano ciascuno per un popolo oppresso e che, zittiti dalla tirannia, avrebbero così zittito ogni popolo. Il filo che lega fra loro – pur nelle diversissime situazioni politico-culturali di appartenenza – le singole esperienze di questi scrittori oppressi e minacciati, tradotte qui in racconti di vita, è, innanzitutto, la perdita forzata del proprio habitat, la dislocazione spaziale, violenta e repentina: "Arrivavano all'alba per trascinare il poeta ancora in pigiama (…) verso una destinazione ignota, da cui non avrebbe mai più fatto ritorno a quell'ultima poesia interrotta" (Younis Tawfik). Lo sradicamento diventa anche smarrimento temporale per l'immediata abolizione di un proprio tempo interiore nel deserto dell'isolamento. È forse per fermare il fluire di una temporalità altrimenti indifferente che molti, fra gli scrittori di Parole di libertà, imprimono un movimento diaristico al loro racconto, introducendo date, eventi raccontati in presa diretta o ricondotti dal passato più familiare a un presente ostile e ignoto. Ostilità e isolamento che circondano il dissidente non soltanto nell'eccezionalità della prigionia, ma spesso anche nella quotidianità divenuta inquietante: "I vicini si auguravano vivamente che andassimo via. (…) Nel corso di quegli anni, la solitudine si impossessò di me come mai. Le porte che si chiudono, gli sguardi che si distolgono, i silenzi" (Hamid Skif). "I lager sono i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana", ha scritto Hannah Arendt. Dalla sua cella in Iran, Ramin Jahanbegloo sembra voler aggiungere che "la vita in prigionia è una lotta incessante contro la distruzione dell'anima", e che c'è "una straordinaria interdipendenza fra la mancanza d'anima e il male". Uno degli strumenti di trasformazione, di distruzione dell'essenza dell'uomo, è condannare all'oblio la sua parola: la parola, ad esempio, di quel condannato a morte albanese, "attore dimenticato, poeta sconosciuto, drammaturgo che non doveva pubblicare". Ma gli autori di Parole di libertà, tutti vittime punite per non aver voluto tacere, hanno continuato a fare della loro penna un inno di libertà, scrivendo pagine di letteratura. Suggerisce Grigorij Pas'ko, "Forse il lettore è stufo delle infinite memorie di prigionia. Forse è stufo, ma difficilmente l'argomento si esaurisce. Almeno finché esistono lager e prigioni". La lingua, dunque, la parola, la letteratura - ha scritto altrove Josif Brodskij – come "antidoto permanente alla legge della giungla. (…) Se questo significa che dobbiamo parlare di noi, tanto meglio: non già per noi stessi, ma forse per la letteratura". Maria Francesca Davì

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