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A venticinque anni Viani parte per Parigi; il romanzo lascia l’atmosfera paesana della Viareggio inizio secolo per puntare su figure e luoghi di una Parigi oppressa da miseria, abiezione, prostrazione. Per qualche mese è ospite dei coniugi Fleury, poi va a vivere alla Ruche, un immenso casamento adibito a dormitorio per artisti poveri. Il romanzo è un susseguirsi di quadri che raffigurano un’umanità stravolta dal ciclone di una povertà senza riscatto. Viani, anche negli anni Venti, cioè nel periodo di avvicinamento al fascismo, rimane fedele alla sua ispirazione e al suo mondo: nel romanzo non ha posto la Parigi delle belle donne e dei locali alla moda. Pubblicato nel 1925, cioè il periodo tra le due guerre mondiali e ancora vicino ai disastri della Prima Guerra Mondiale, il romanzo non ci racconta le meraviglie e i luoghi preziosi della Ville Lumiere, bensì la sua desolazione e i luoghi tristi e cupi dove vivono ammassati i miserabili, descritti come derelitti e disperati, in condizioni ben più precarie dei Miserables di Victor Hugo. Gente che fruga nelle immondizie cercando residui di cibo. Queste Parigi sembra un girone dell’Inferno dantesco. Qui la Tour Eiffel è descritta come una “mostruosa siringa quasi fosse un aculeo di un parafulmine”. Il linguaggio è piuttosto delirante e anche cosparso di parole inventate, senza riscontro nell’odierno vocabolario. Alla fine Viani fugge da Parigi, arriva a Milano e poi a casa in Toscana dove viene nutrito e dove gli si dà un ambio di vestiti decenti. Non è un romanzo di facile lettura, anzi… Viani usa spesso un vernacolo di sua invenzione, che alla fine risulta stucchevole per il lettore.
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