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1991
1 febbraio 1996
96 p., ill.
9788876481208

Voce della critica

GIUDICI, GIOVANNI, Poesie (1953-1990), Garzanti, 1991
GIUDICI, GIOVANNI, Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d'esta stella, Costa & Nolan, 1991
recensione di Merola, N., L'Indice 1992, n. 2

"La poesia di Giudici", si legge nell'antologia della critica posta in appendice al secondo volume delle sue "Poesie (1953-1990)", "possiede una dote abbastanza rara: sta in piedi da sé, non ha bisogno di puntelli e di giustificazioni". Con queste parole Alfonso Berardinelli ha definito come meglio non si sarebbe potuto il pregio più evidente di una poesia che, avendo rinunciato a "sovraccaricare di significato simbolico o allegorico i dettagli e gli oggetti", offre al lettore fin dal primo approccio il conforto di una insolita solvibilità in termini di ingegno creativo, arguzia, buon senso, franchezza, rigore morale e intellettuale, elevatezza di sentimenti, maestria versificatoria.
Poiché le buone qualità e le migliori intenzioni di tanti altri non producono lo stesso effetto, bisogna ammettere che la poesia di Giudici stia in piedi da sé, si lasci apprezzare per quello che dice e insomma risulti "facile", anche per qualche altro motivo. A parer nostro, il suo segreto consiste nel negare energicamente ogni credito alla mitologia letteraria della poesia con la maiuscola, al sublime, all'ineffabile, a una lingua poetica speciale, e nell'onorare concretamente la propria scelta, mettendosi senz'altro a raccontare in versi la vita di un personaggio. Fin dagli esordi, il poeta si è infatti risoluto, citiamo adesso Giovanni Raboni, all'"abbandono dell'io lirico-autobiografico a favore di un io-personaggio", appropriandosi per così dire delle risorse di un diverso genere letterario, se non di più generi letterari, visto che, oltre a raccontare "il vissuto dell'uomo impiegatizio", parole queste di Zanzotto, "tende spesso alle forme dell'orario, fatta per essere recitata più che per essere letta", come propone Fernando Bandini.
A differenza dell'inevitabile proiezione di ogni scrittore di versi o di prosa in un personaggio che perciò deve essere considerato fino a prova contraria preterintenzionale e biograficamente attendibile, Giudici si rappresenta deliberatamente dentro le sue poesie e penalizza il suo alter ego con una sorta di retrocessione, sia rispetto all'iconografia poetica tuttora corrente, sia perché contempla l'esistenza di altri personaggi, li subisce e lascia loro volentieri la parola e la ribalta. Per abiurare in maniera ancora più netta le credenze e le velleità di natura estetica connesse a una sua prosopopea "eroica" ed escludere ogni trascendenza dal mondo limitato della vita di tutti i giorni e della lingua che realmente si parla, asseconda poi tale ridimensionamento con un radicale 'understatement', ai limiti dell'autodenigrazione, della posa caricaturale, del comico smaccato ("Prono al cenno del potente / Sempre in posa genuflessa"). Uniformando infine i suoi versi al parlato quotidiano, Giudici può attribuirli a una voce poetica a esso adeguata, soggetta cioè alle 'défaillances' che retoricamente lo equivalgono e irriducibile alle convenzioni linguistiche e letterarie, e instaurare così dentro i suoi testi una più complessa dinamica comunicativa, nella quale interagiscono una paradossale "eloquenza" finta "con i mezzi dell'afasia" (Raboni) e la gesticolazione a essa perfettamente omogenea. La sagace utilizzazione della sintassi affettiva, delle inversioni, degli anacoluti e dei balbettamenti, e la manipolazione di un materiale verbale ormai divenuto plastico e quindi sommamente espressivo, conferiscono alla versificazione la naturalezza dell'oralità e alle battute il sigillo del metro e della rima ("Balbetto il più che mi chiedi / Mio male sacro-mio / Ritmo che mi precedi"), alla poesia restituendo la sua natura di "vaga lingua strana", duttile insieme e incredibilmente sostenuta. È singolare infatti, ma era canonico già prima del D'Annunzio paradisiaco e di Gozzano, che proprio lo scompaginamento dell'ordine logico giustificato dal proliferare dei punti di vista, oltre che dalla mimesi del parlato, proponga un virtuosistico recupero del monologismo rinnegato, nel ricordo delle involuzioni sintattiche della più nobile tradizione.
Analogamente lo scenario surreale disegnato dalla frammentarietà e dall'incongruenza del racconto in versi in cui la polifonia "teatrale" si confonde con i soprassalti della coscienza, finisce per alludere a una continuità con la dimensione onirica e a una vocazione quasi medianica, per la frequenza con cui dentro di essa il passato ritorna con la dolorosa consapevolezza del presente da cui è escluso ("ago / Che dal domani del pagliaio ci pungerà"), mentre persone e cose sembrano tutte comunque già di là dal mondo, come i protagonisti del romanzo familiare di Giudici. Il personaggio del poeta dal canto suo si presta a fare da medium, dal retroscena psicologico di una resa incondizionata, di una universale messa all'incanto, di una liquidazione ("Niente è più utile a niente - ochèi, / Carico a mare!) che corrisponde sia al suo atteggiamento remissivo, che alla frana inarrestabile del tempo e al succedersi delle pagine di un diario, del flusso verbale che cerca goffamente di arginarlo
L'assunto di Giudici è forse davvero solo quello di volgere provocatoriamente in poesia o mettere "La vita in versi", come s'intitola il primo dei suoi libri ora raccolti (gli altri sono "Autobiologia", "O Beatrice", "Il male dei creditori", "Il ristorante dei morti", "Salutz", "Lume dei tuoi misteri", "Prove del teatro", "Fortezza"). Bisogna anzi insistere sulla genuinità del suo proposito e sulla fermezza delle sue convinzioni. Ma sbaglierebbe chi credesse che un'impresa del genere non implichi, proprio in ragione della sua determinazione sperimentale e parallelamente al suo approfondimento, la tentazione di adoperare la vita come un banco di prova della poesia, partendo dalla mortificazione concomitante del poeta-personaggio e di una immagine troppo impegnativa della letteratura per un'escursione spettacolare o una dimostrazione per assurdo ("E poi subito e sempre ricominciare persuadendosi: / Ma esiste e quasi ci sei"). Si può negare il sublime per riaffermarlo enfaticamente ("Mia umiliata via al sublime") e abbassare l'io lirico a personaggio per restituirgli una nobiltà più forte di ogni caduta e il pathos della redenzione, e si può tradurre in un linguaggio comprensibile, contestualizzato alla vita reale e su di essa verificato facendola passare attraverso la cruna stretta del parlato, la tensione alla poesia, il sogno anzi di una pentecostale evidenza e trasparenza di tutto a tutti che non comporti rinunce, pur contemplando la pervicacia nella miscredenza, l'abolizione del sublime e la negazione della trascendenza estetica ("Bello se a far gran bene / Si troverà il mentire"). A una "Dama non cercata" Giudici ha intitolato il più importante dei suoi libri di saggi.
Che il possibile sia anche molto probabile, necessario ma non necessariamente intenzionale, si appura interrogando direttamente il personaggio e puntando l'attenzione sul fondamentale dato biografico che ha suggerito al poeta il suo "motivo" più autentico, e forse non è estraneo al meccanismo appena illustrato. Un aiuto in questo senso giunge da un'opera minore ma preziosissima come "Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d'esta stella", in cui la contrapposizione tra Auctor e Viator, ripresa per un'interpretazione teatrale del poema dantesco, tematizza lo sdoppiamento messo in scena anche dalla poesia di Giudici. Da questo incontro "scritto nel destino" (Brioschi) si intuisce che la sua invenzione continua a essere tributaria di un sistema di riferimento religioso, dal quale discende la rinnovata attualità dello schema classico del dialogo con i morti, e a richiamare intorno a sé quanta più vita e letteratura tenga in sospeso i suoi conti con i lettori. Si capisce altresì che l'attitudine nella quale abbiamo già sorpreso il personaggio, e che riguarda i suoi rapporti con i genitori defunti, con l'amore, con l'educazione cattolica, con la militanza comunista, è prevalentemente proprio quella di chi viene interrogato, "in veste di esaminando (di imputato?)", e si sente in imbarazzo per questo ("nella condizione di chi non vede ed è visto, di uno che è nudo e non lo sa e anche sapendolo non avrebbe mai di che coprirsi"), come dovendo rendere conto sempre a qualcuno che ha l'autorità di interrogarlo e che soprattutto sa le risposte giuste. Donde il disagio e l'impossibilità di mentire o solo di essere reticente, da parte di chi la verità, ammesso che sia mai in grado di arrivarci, la può trovare solo procedendo per tentativi, balbettando risposte che sondano ansiosamente l'espressione dell'esaminatore: "Adesso so che non sapeva niente / ... / Ma quante volte quel niente / io l'ho confessato".
Ma si constata soprattutto che anche se il proposito di "scrivere versi cristiani in cui si mostri / che mi distrusse ragazzo l'educazione dei preti" viene mantenuto, sopravvivono nondimeno la speranza e lo sforzo a un ricongiungimento appunto con l'oggetto di quella fede rinnegata, per colmare la carenza di assoluto e quell'enorme vuoto affettivo ("O ingordo cielo dentro il quale mi inabisso") che sono poi i maggiori responsabili della posizione infelice del personaggio sempre sotto esame. E si dovrà convenire che appartiene a "un universale (almeno nella cultura italiana) archetipo", quello del "catechismo" (Ossola), la situazione nella quale si rappresenta il poeta interrogato, del resto per altri versi ugualmente attratto dal "salmodiare 'humilis' dell'orazione, arginata in una salda tradizione metrico-liturgica". La sua risposta deve partire dalle proprie più autentiche convinzioni e deve tuttavia corrispondere perfettamente al dogma, magari sconosciuto ("I Dieci Comandamenti erano ancora da venire / Ma già li avevano nel cuore"), a pena non della falsità ma dell'errore e non della bocciatura ma della dannazione. Nei "santissimi tribunali" di un'Inquisizione perenne, dove l'impossibile atto di fede viene metodicamente sostituito con soddisfazione di tutti da una pratica confessione, o, per una variante appena aggiornata dello stesso dispositivo, dall'autocritica, non a caso si processa la poesia, che poi viene gettata, a tu per tu con il rovello di un perenne stato nascente, nelle prigioni di Tasso o di Campanella, senza che nessuno sappia "Di che libertà fosse il prezzo la sua servitù".
Solo un Dio onnisciente, che per definizione ti vede ("Trasalisco a un diotivede") e, come sai per triste esperienza, non è mai contento di te, può equiparare al peccato in opere quelli in pensieri e omissioni, estendendo la propria giurisdizione sull'inconscio e rendendo ogni minimo dettaglio della vita al tempo stesso decisivo, visto che basta a dannarti, e irrilevante, se può essere tanto semplicemente revocato. E solo l'introiezione di un Dio simile può forse giustificare la resistenza di una invincibile identità personale nella dispersione dell'individuo e quasi nella sua frammentazione in un coro di osservatori spassionatamente feroci: un altro sguardo che, non potendo penetrare nell'imperscrutabile per definizione, fruga nella vita e raccoglie testimonianze su sé stesso, primo complice dei propri persecutori e spia dei propri nemici. Con in più la tendenza, già sperimentata nello scambievole potenziamento tra religione e vicende familiari, a riprodurre lo stesso tipo di soggezione, secolarizzandola, nei confronti di chi signoreggia, in maniera comunque contingente, i pensieri del poeta: "lasciami / Andare a Roma ti giuro che torno / E a nuovi pesi / Non dubitare non temere chinerò / Il capo". Ed è la donna che, rappresentando l'unica opportunità ormai concessa all'adorante, risale irresistibilmente all'archetipo della madre, proprio perché passa prima attraverso la più mortificante degradazione corporale: a testimonianza dell'assolutezza del rapporto con una femminilità "penitenziaria" e naturalmente predisposta all'allegoresi.
A tutta la splendida sequenza al vocativo di "Salutz" apporremmo come epigrafe ideale l'ultima strofa di "Sottomissione e riconoscimento", una poesia di "Il male dei creditori": "Il che potrebbe spiegarsi con un mio antico bisogno / Di colpa di confessione e di servitù / Esso rimane e passano persone sulla scena / Dov'era lui - ci sei tu". In questo gioco di sostituzioni, non ci si stupisca di imbattersi alla fine nel corpo a corpo del poeta con la lingua, la Signora alla quale rende omaggio e che va assecondata da chi non può letteralmente che pendere dalle sue labbra, sforzandosi come al solito di prevenirne i desideri e di divinarne le intenzioni, solo conoscendo le quali potrà rispondere nel modo giusto e attingere tutta la verità alla sua portata. Chissà se lo stesso di scorso non valga anche per la mirabile confluenza (O Giudici del core) che si comincia a intravedere tra questa originalissima ricerca poetica e la nostra grande tradizione. Che non ha mai smesso di interrogarci. I nomi che ora vorrebbe sapere, glieli faremo la prossima volta.

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Giovanni Giudici

(Portovenere, La Spezia, 1924 - La Spezia 2011) poeta italiano. Ha esordito nel 1953 con Fiorì d’improvviso, cui è seguito L’educazione cattolica (1963). Estraneo alla poetica ermetica, fin dalle prime opere si è riallacciato alla tradizione crepuscolare e, in parte, alla linea dei poeti liguri, con particolare riferimento a Montale. Dopo le raccolte d’esordio, la sua stagione matura si è aperta con La vita in versi (1965), che contiene le poesie scritte negli anni 1957-65, e Autobiologia (1969, premio Viareggio), nelle quali l’io cantato si fa sociale, protagonista di una biografia autoironica, raccontata con tono volutamente medio, senza eccessi né accelerazioni, giocato tra un ritmo narrativo quasi prosaico e improvvisi spunti lirici....

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