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Anno edizione: 2015
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Libro utilissimo ancora oggi, che fa ordine e chiarezza su questioni sulle quali si fa molta confusione ma in realtà per nulla chiare in Italia ai più
Concordo su quanto detto da Giulia. È un buon testo perché si approccia per la prima volta a queste tematiche, per chi è già informato risulta ormai ripetitivo e inutile. La speranza comunque è che lo leggano le persone giuste, quelle che avrebbero bisogno di aprire gli occhi su certe questioni.
Ho trovato questo libro molto scorrevole e interessante. Apre un mondo assai complesso, che viene reso semplice attraverso degli spunti ben chiari e innovativi. Lo consiglio assolutamente.
Recensioni
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Le discriminazioni e la violenza contro le donne, gli omosessuali e le persone transessuali. Michela Marzano come sempre non esita a mettersi in gioco direttamente, raccontando se stessa e identificandosi nell’esperienza di chi ha vissuto da vittima innocente il dramma dell’esclusione.
«Nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di far diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo.» - Albert Camus
La paura di una parola, gender, ha scatenato, negli ultimi mesi, l’inferno in Italia. Sono state dette parole taglienti come lame, sono stati offesi esseri umani, ritenuti meno degni di tale “titolo”, sono scattati allarmismi nelle scuole, nelle parrocchie, alla televisione, dal pediatra. In mezzo a tutta questa confusione, di fronte alla proliferazione di tutori della famiglia, profeti della comunicazione, bigotti del qualunquismo ed esperti psicosessuopedagogici, qualcuno ha pensato bene di fermarsi un momento per cercare di capire da che parte si stava andando. Quale lingua stavamo parlando. Quale “teoria del gender” stavamo realmente raccontando ai figli del nostro futuro.
Così Michela Marzano, normalista, autrice di numerosi saggi di filosofia morale e politica, insegnante universitaria, etero e cattolica, ha cercato di fermare il traffico. Con una linearità e un linguaggio meramente chiarificatore ha ricondotto al senso originario alcune parole, mettendole al loro posto. Ha imposto il semaforo rosso all’ignoranza, voluta o meno, di chi ha sentito il bisogno di dire la sua sulla "questione gender", restituendo voce a chi, in questa battaglia, è stato messo nel mezzo, umiliato in piazza, esposto alla gogna.
Ed è proprio dalla parola gender che tutto inizia. Gender, tradotto in italiano come genere, è un vocabolo entrato nel nostro Paese circa 50 anni fa per designare l’insieme delle caratteristiche maschili e femminili degli individui, allo scopo di studiare i rapporti che intercorrono tra uomo e donna. Questi rapporti sono determinati da fattori sociali, culturali e psicologici, e distinguono gli uomini dalle donne. Il genere si differenzia dal sesso, che invece distingue la “categoria maschile” e la “categoria femminile” sulla base di altre caratteristiche: anatomiche, cromosomiche e genetiche.
Altra cosa ancora è il ruolo di genere, ovvero quell’insieme di caratteristiche e di comportamenti «impliciti o espliciti, associati agli uomini e alle donne, che finiscono spesso con il definire anche ciò che è appropriato o meno per un uomo o per una donna.»
Michela Marzano compie in questo modo un’analisi della pericolosa voragine che si è aperta nella società italiana. Il suo percorso parte da una serie di video virali che hanno spopolato in rete creando veri e propri fenomeni di terrore. Video promossi da vari enti (come ProVita), in cui si spiega alle famiglie come il Governo sia stato costretto a inserire nelle scuole la nuova educazione sessuale basata sulla teoria del gender. Grazie a questa teoria - spiegano i video - i bambini sarebbero precocemente invitati a scegliere se essere uomo o donna, a cambiare sesso se e quando vogliono, a fare sesso fin da piccoli. Panico. Volete davvero questo per i vostri figli? Certo che no. No alla teoria del gender! Giù le mani dai nostri figli!
Partendo da questi fatti e dalle polemiche esplose nelle scuole, la Marzano affronta sapientemente, punto dopo punto, tutto ciò che viene grossolanamente espresso in questi video, dipana le matasse e i grumi dell’ignoranza popolare, le credenze, le paure più recondite e diffuse presso i genitori dopo tanti allarmismi. Come spiega, non c’è nessuna scuola che sta obbligando nessun bambino e nessuna bambina a scegliere se preferisce essere una ragazza o un ragazzo. Invece, cosa indubbiamente accettata da sempre, si obbliga un bambino, o una bambina, ad avere certi atteggiamenti perché “consoni” al proprio genere (un bambino che gioca con le bambole è considerato una “femminuccia”, una bambina non è bello che giochi a calcio, è uno sport da “maschiacci”). Questo non è un limite alla libertà della fantasia dei bambini? Non è un limite alla libertà di espressione dei ragazzi? Non fa paura il suicidio di un ragazzo di sedici anni etichettato come frocio perché era solito indossare pantaloni rosa “consoni” a una ragazza? (il riferimento è al caso di cronaca del 20 novembre 2012, ndr). Ecco allora che il problema di base sembrerebbe essere quello del ruolo di genere e di come la società voglia definire appropriato il comportamento di un maschio o quello di una femmina.
Quando si è piccoli, è difficile difendersi da soli. Dovrebbero essere gli adulti, la scuola, i genitori a spiegare che non c’è nulla di male a “non essere come gli altri”. La scuola, prima di tutto, dovrebbe decostruire gli stereotipi di genere, e non rafforzarli, insegnando che ci sono modi diversi per crescere e diventare uomini e donne. Insegnare che «madre, al pari di padre, sono figure che trascendono il sesso, il sangue, la stirpe e la biologia, come ricorda Massimo Recalcati» (ne Le mani della madre, ndr). Che l’amore è incondizionato e non appartiene a una classe stereotipata. Che esistono tante famiglie composte da mamma, papà e figli e nessuna è identica all’altra. Come può esserci un modello assoluto, allora? Si può comparare una famiglia “tradizionale” a un’altra? Possiamo pesare al grammo la gioia e la sofferenza che quella famiglia può nascondere? E allora perché dovremmo farlo con le famiglie omogenitoriali? Cos’è peggiore e migliore, quale famiglia può essere definita perfetta?
Cosa fa tanta paura a questa società? Che sia solo la parola gender? O forse, ancora una volta, dopo la paura dei neri che prendono posto su un autobus, dopo la paura delle donne che possono votare e decidere del loro essere madri, ancora una volta è la paura del “diverso” a destabilizzare?
La tolleranza, diceva Voltaire nel Trattato sulla tolleranza (1763), è la capacità di sopportare anche ciò che si disapprova; è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana: “Siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all’errore. Non resta dunque che perdonarci vicendevolmente le nostre follie”. La tolleranza è la voglia di immaginare, commentava quasi due secoli più tardi Hannah Arendt, che un’altra persona possa aver ragione. È la possibilità di rimettersi in discussione, anche quando qualcuno deride ciò in cui noi crediamo. Dietro la tolleranza, per dirla in altre parole, c’è sempre l’accettazione dell’alterità. Anche quando quest’alterità ci disturba, ci provoca, ci destabilizza.
Una magistrale educazione al rispetto, alla tolleranza. Una luce nella notte che può riscaldare il cuore del lettore. La speranza di cogliere, da qualche parte, il segno del cambiamento. Una scrittrice che mette il suo essere donna in primo piano, le sua esperienze personali in gioco, e smaschera le discriminazioni autorizzate dietro il logo “no gender”.
A cura di Wuz.it
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