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È notoriamente arduo fare il punto di un fenomeno che va delineandosi nel momento stesso in cui se ne scrive: questo l'obiettivo del lavoro di Calzia e Castellani, che nel loro libro-inchiesta articolato e ricco di informazioni riescono a ingabbiare un tema di attualità sfuggente e dalle mille facce, quello del doping nello sport, in particolare nel calcio. Così sfuggente che anche le definizioni sono dubbie. È infatti ormai inadeguato parlare di "doping", se inteso solo come assunzione di sostanze vietate dalla legge per migliorare il rendimento fisico. Una della pratiche più diffuse pare sia invece quella di somministrare agli atleti farmaci concepiti per altri scopi, farmaci di uso corrente (come antidolorifici, cortisone, diuretici, psicofarmaci antidepressivi, specialità utilizzate nella chirurgia cardiaca), che se assunti da persone fisicamente sane e a certi dosaggi (in genere abnormi) sono in grado di incrementarne la prestazioni.
Il catalogo della "Farmacia Sport" è una sorta di elenco degli orrori, e la domanda che sorge spontanea è: perché? Perché fino a questo punto, fino al rischio di mettere a repentaglio anche la vita dei giocatori. Molto illuminanti le parole di Gianmartino Benzi, che insegna farmacologia all'università di Pavia ed è consulente del procuratore torinese Guariniello nell'inchiesta che ha portato al processo attualmente in corso contro la Juventus, di cui il libro fornisce ampia documentazione. Il farmaco in questione è l'Epo, eritropoietina, che stimola la produzione di globuli rossi (nota alle cronache del ciclismo per il caso di Pantani). "Un calciatore in media partecipa al gioco per non più di 40 minuti, - afferma Benzi - negli altri 50 ripiana il debito di ossigeno. Per questo i medici del calcio hanno cercato il modo di ridurre i tempi di pausa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il ritmo forsennato che si riesce a imprimere a certe gare, calciatori di grande classe che un tempo trotterellavano per mezza partita e oggi corrono dal primo all'ultimo minuto e finiscono freschi come una rosa". In effetti, nello sport come industria qual oggi senza dubbio è, tutto ciò risponde appieno alla logica del profitto di qualsiasi altra industria: i calciatori costituiscono enormi investimenti per le società, perché mai li si dovrebbe sfruttare per meno della metà, quando esiste una tecnologia che ne consente un utilizzo molto più intensivo? Viene da chiedersi perché gli atleti acconsentano a correre questi rischi. La risposta che la lettura di Palla avvelenata fa affiorare non è univoca: un insieme di condizionamenti dagli interessi economici, costruzione del proprio mito di campioni, superficialità, parziale ignoranza (letterale: sugli effetti di ciò che assumono). Atteggiamenti riassumibili sotto la voce "indifferenza".
Un'indifferenza peraltro diffusa fra gli appassionati di sport e nella società civile in senso lato. Nel flusso di spunti che il libro offre: un sondaggio ha appurato che i ragazzi delle scuole non ritengono sbagliato doparsi; secondo Mauro Salizzoni, responsabile del centro trapianti delle Molinette di Torino e presidente della commissione antidoping del ciclismo, sono più del 50 per cento i giovani fra i 17 e i 23 anni che assumono Epo. Altro dato inquietante: l'ormone della crescita, il Gh, vietato, diffusissimo e introvabile nei test, come afferma Eugenio Capodacqua nella sua introduzione. "Non è la scienza che difetta. Volendo, un metodo si troverebbe". E qui si apre l'infinita storia dei controlli, carenti se non nulli, con laboratori fraudolenti, provette gettate nella spazzatura, leggi inefficaci, finanziamenti negati. Non solo a livello nazionale, va detto, se per le Olimpiadi di Sydney il Cio stava perfezionando un metodo di rilevamento, finché i finanziamenti si sono interrotti, con il risultato che anche quest'anno, ad Atene, gli atleti potranno liberamente farne uso (per inciso: in Italia le vendite di Gh crescono, secondo il Coni stesso, del 25 per cento all'anno: nel 1999 si registrava una spesa annua di 160 miliardi di lire per non più di 3000 giovani affetti da nanismo...).
La parte più toccante del "pozzo senza fondo" illustrato dagli autori sono le interviste a calciatori - o loro parenti, nel caso di chi non c'è più - affetti da Sla (sclerosi laterale amiotrofica, ovvero morbo di Gehrig, un blocco progressivo dei muscoli che conduce a una morte lenta e terribile) e da altre patologie. Non esistono al momento certezze scientifiche che mettano in relazione il doping con queste morti, però l'incidenza molto superiore fra gli atleti rispetto al resto della popolazione ha messo in moto ricerche in tutto il mondo. La speranza è che i miti sportivi di oggi non debbano essere intervistati fra vent'anni in un libro come questo, costretti a dare le risposte solo con un'occhiata, o con la voce di qualcuno per loro.
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