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Oggi le autovetture non godono di buona letteratura. Sono ingombranti, inquinano, dissipano energia, usano un'enorme quantità di benzina, sono la causa ultima di cancro, crisi asmatiche, guerre per il petrolio, e di città trasformate in enormi parcheggi a cielo aperto. Eppure in Italia vi fu un tempo, non troppo lontano, in cui la vettura a motore era orgoglio e vanto di ogni famiglia, status symbol , come pochi altri, oggetto desiderato e inseguito.
È questo il tema del volume di Federico Paolini, che ci racconta come, nell'Italia del dopoguerra, l'automobile divenne uno dei poli di sviluppo economico, uno dei miti del progresso, uno dei fattori di crescita della (fino ad allora bassa) mobilità nazionale. Il primo elemento di riflessione è il focalizzarsi intorno all'automobile di differenti interessi e sguardi. Va da sé che la vendita di automobili coinvolge l'industria automobilistica, ma anche quella della gomma e quella del petrolio, e poi la siderurgia e la meccanica. Per non dire dei cementieri, ben felici di veder costruire nuove strade e autostrade a servizio del crescente traffico. Ma anche gli apparati statali non erano per nulla dispiaciuti di costruire una rete autostradale che poteva divenire fiore all'occhiello delle loro politiche, né di vedere sfrecciare i loro elettori sulle Fiat 600; e non va dimenticato che la tassazione sull'auto e sui carburanti era (ed è) un'entrata pubblica di tutto rispetto.
Dalla parte degli utenti, l'automobile fu vista come oggetto di culto, elemento identitario, feticcio simboleggiante l'uscita dalla povertà. Al di là degli immaginari collettivi, il possesso della vettura rompeva isolamenti secolari, faceva scoprire la mobilità e accorciava radicalmente le isocrone di un'Italia arroccata in mille borghi. A metà tra elettrodomestico e icona, l'auto era considerata tanto per la sua utilità quanto per i valori che incarnava: alla fine degli anni cinquanta, la vettura consentiva a operai e impiegati di ridurre di oltre la metà i tempi di percorrenza casa/lavoro. L'automobile che esce dal libro di Paolini ci risulta insomma un po' meno demoniaca e po' più collocata nella storia, con tutte le contraddizioni che ne derivano. E le questioni fronteggiate non sono poche: la storia delle autostrade, la tassazione dell'automobile, la motorizzazione di massa e i modelli correlati, i consumi e gli stili di vita, il traffico e l'inquinamento. L'arco temporale coperto (con dovizia di dati e con ricche tabelle statistiche) è quello che va dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni settanta, ed è forse un peccato, perché un po' si perde il senso di quanto il fascismo fece a favore della mobilità su gomma (autostrade in primo luogo). La ricerca avrebbe potuto inoltre dire qualcosa di più sul mito americano, un mito fatto di immaginari e di solidi aiuti, piano Marshall in primis , che ebbe profonde relazioni con lo sviluppo dell'automobilismo.
Come ci racconta l'autore, non tanto paradossalmente gli anni del massimo splendore dell'automobile furono gli stessi della sua crisi. Si passò dalla mobilità individuale alla immobilità collettiva. Mancavano i parcheggi (anche per miopi scelte urbanistiche). La crisi petrolifera fece scoprire il costo sempre maggiore dell'energia e la scarsa efficienza del mezzo.
Massimo Moraglio
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