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Anno edizione: 1998
Anno edizione: 2018
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Una scrittura abbacinante che dipinge il presente com'è, e, forse, anche un presente senza tempo: "La faccia burina dell'arroganza del potere". Immaginifico.
Ultimi bagliori delle grandi, misconosciute (ai più) potenzialità della nostra Lingua. Ad Arbasino l'alloro poetico.
L'ORRIDA VECCHIEZZA, DAI DENTI FINTI E DAI CAPELLI TINTI. 'GUIDO GOZZANO' Basta arrivano loro gli arbasini 'Il Marcel Proust di Pavia, Flaiano', i Vaime, quello del zum zum della Carrà, si accomodano sopra il divano di Fazio, dopo i sacri glutei di Carla Bruni, o della Canalis eD ancora pontificano su di una reltà, che hanno sempre capito poco, ed ora per nulla. Gli inventori del pettegolezzo, gli apripista del Vanity Fair. Basta ...il grande Visconti 'Luchino' lo ha scoperto e abbandonato quasi mezzo secolo fa. Da allora eccolo: Fratelli d'Italia, Eliogabalo, super Eliogabalo , ho letto tutto quanto .....e ora basta. Quali zombi, o zombie???, quelli della tradizione , quelli di Romero ....oppure quelli di Fulci??????? Zum zum zum quando la televisione la facevano i Vaime, si andava al cinema, zum, zum, zum. Quelli che ci tengono al titolo di dottore, quelli che se la prendono con i telefonini, ma lasciano in pace i potenti, quelli che hanno provato a fare del cinema, ma nonostante la loro aristocrazia, il loro dottore, non hanno combinato nulla di buono, 'Ma il cinema non mi interessava, dopo aver pasticciato, con una ventina di film, la volpe e l'uva'. Quelli che stigmatizzano, quelli che il calcio no, poi vanno dalla Ventura, Simona. Zum zum zum zum zum....da bambino Rivera, ora Kaka', Zum zum zum zum zum. Si torna a Lucarelli e Pinket, come un tempo a Marlowe e Hammet...ZUM ZUM ZUM ZUM.
Recensioni
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Con questo libro Arbasino è riuscito miracolosamente a imbrigliare, ad afferrare l’irrealtà del nostro tempo più e meglio di tante opere di narrativa, di filosofia, di teoria sociale. Ma, vorrei aggiungere, si è trattato di un conflitto non incruento e forse lui stesso non ne è uscito del tutto indenne, come vedremo oltre. Innanzitutto non ci si deve lasciar ingannare dal tono solo apparentemente frivolo di Arbasino osservatore del costume sociale e culturale. La sua è una maschera a volte irrigidita, monoespressiva, altre volte invece indossata con grazia mondana e noncurante levità. Ma dietro la chiacchiera divagante ed erudita, dietro la conversazione amabilmente arguta si cela un moralista preoccupato e anzi angosciato (i suoi "zombi" e "cloni" che infieriscono sulle vittime evocano quei terribili versi di Primo Levi "Dateci qualcosa da bruciare..."). Leggendo queste pagine viene anche in mente l’amico Pasolini, citato e variamente parafrasato (a proposito dei "nati in più"). Personalità certo diversissime, ma dietro le differenze caratteriali e di formazione è possibile anche individuare un nucleo "conoscitivo" non dissimile. Certo, per usare una distinzione celebre, l’uno è "riccio", che scava sempre ostinatamente in una sola direzione, animato da un principio unico, l’altro è "volpe", dotato di un pensiero diffuso, incline ad aprire molte piste e a smarrirsi in questa dispersione; ma sentiamo che in entrambi la fine del mondo, la dissoluzione della realtà viene colta subito attraverso la imponderabile "ventosa" dei sensi, attraverso una ricezione che è prima del corpo e dopo dell’intelligenza. Quando Arbasino ci racconta il degrado del Bel Paese, cosa fa se non "vedere" e "ascoltare" con attenzione ciò che gli passa davanti? Chi altri è capace di farlo oggi? Una disposizione, la sua, sempre più rara nei romanzieri o nella classe politica o perfino nei sociologi. E anzi ho l’impressione che questo libro, così difficile da classificare, privo com’è di uno statuto definito (molto più "opera aperta", nella quale il lettore si muove liberamente confrontando la propria esperienza, rispetto ai romanzi-conversazione), esprima la vocazione letteraria più genuina dell’autore: un eclettismo onnivoro, un gusto micronarrativo, una vertiginosa erudizione che si rifà il verso, un funambolismo della lingua, che devono però continuamente trarre ispirazione dal "fuori". Probabilmente alcuni passi più "teatrali" si possono godere quasi solo sul piano del significante (provate a leggerli ad alta voce!), con quella martellante figura dell’enumerazione (per asindeto o polisindeto) e i suoi effetti a volte esilaranti. Ma si tratterebbe di una degustazione troppo parziale. Vediamo invece meglio i vibranti "contenuti" civili di cui si nutre la sua prosa e che il lettore, ipnotizzato da tanta lussuria verbale, rischia di lasciare un po’ in secondo piano. La radice è quella solidissima dell’illuminismo lombardo, di una razionalità critica applicata caparbiamente alla nostra vita civile e sociale, di una risentita moralità appena dissimulata dal birignao parodistico-mimetico. È anche vero che dentro l’argomentazione di Arbasino ci accade di ritrovare sempre più spesso un buon senso spesso condivisibile ma reazionario, nonostante i suoi articoli vengano ospitati sulla "Repubblica" e ricevano, tra l’altro, il plauso di Bocca. Inviterei i molti (troppi) fan dell’ultim’ora a fare bene i conti con questo aspetto più spigoloso e ineludibile della riflessione del Nostro. Il suo bersaglio sembra essere la scolarizzazione di massa, l’università dell’obbligo, la diffusione del sapere, le controculture trasversali "senza doveri civili", l’egualitarismo, il sentirsi colpevoli per tutti i crimini del mondo, la demagogia sulla bontà della società multietnica (con le "integrazioni forzose e delittuose"), l’inganno degli artisti contemporanei per cui si ribattezza trash qualsiasi porcata, il perbenismo del politically correct, un certo umanitarismo tassativo (che ama solidarizzare con devianti e criminali). Ora, qualche volta si vorrebbe che l’eurocentrismo di Arbasino apparisse un po’ più "controvoglia", però credo che il modo più proficuo di "usare" queste pagine sia quello di farsi un po’ scombinare alcune certezze "progressiste" troppo pacifiche. Il paesaggio politico è radicalmente mutato, le ideologie, lungi dall’essere morte, sono in continua ridefinizione. Forse oggi il pensiero critico (o quanto ne rimane) deve vedersela innanzitutto con alcuni "valori" emancipativi dei trascorsi decenni successivamente andati a male: la retorica della trasgressione, il sogno demagogico (e perverso) della democrazia per cui tutti saremo romanzieri, poeti, ecc., l’espansione della cultura al prezzo però di disinnescarla e trasformarla in insapore midcult, la riduzione della più rovente tradizione satirica a consumo inoffensivo, e poi autori intrattabili diluiti in slogan caramellosi (e non a caso la stessa Susan Sontag ha coraggiosamente preso le distanze dalle trasgressioni culturali che lei stessa perorava negli anni sessanta). Quando leggiamo "Eccovi panettoni Mottalemagna garantisti e golfini cashmere giustificazionisti" avvertiamo per un attimo il brivido del "politically incorrect", ma tutto sommato vale la pena provare brividi del genere. Ad Arbasino si potrebbe casomai rimproverare una accurata, totale mancanza di nomi (di autori, di libri, di giornali, ecc.). Va bene l’educato glissare, l’aristocratico understatement, ma davvero in alcuni casi, di dubbia interpretazione, occorreva dire il peccatore oltre al peccato. Tutti quei laici che si convertono anzitempo, quegli artisti che sfruttano le loro crisi in film o spettacoli di profitto... Dicevo all’inizio che Arbasino non esce completamente indenne da questo conflitto drammatico, spossante con l’irrealtà (della cultura, della lingua, della società circostante). Se Pasolini dovette pagare un tributo (altissimo) al genocidio culturale in termini di impoverimento dell’ispirazione e poi di perdita di interesse verso la realtà, di deriva autodistruttiva, Arbasino preferisce identificarsi con l’aggressore per "giocarlo" astutamente da dentro (abbiamo visto che è una "volpe"...). Ma in questa sapiente identificazione tattica qualcosa forse di irreparabile avviene dentro il suo sistema (peraltro sofisticatissimo) di autoalimentazione culturale e morale. Il drago dell’irrealtà può pietrificare, come la Medusa, chi intenda guardarlo senza schermi. Forse Arbasino, nel suo quotidiano, inesausto venire alle prese con il talk show delle nostre esistenze, si è generosamente immolato per tutti noi, lasciando però ogni giorno dietro di sé preziosi frammenti di consapevolezza.
recensioni di La Porta, F. L'Indice del 1999, n. 03
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