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La storia di una solida e particolare amicizia, che si snoda attraverso il rapporto che entrambi hanno con la montagna. Sebbene alcuni passaggi e descrizioni risultino a mio avviso un po' prolissi e impegnativi, il fluire Delle vicende dei protagonisti, rende il romanzo molto molto piacevole! Consigliato
Una storia cruda, ruvida e in certi tratti piuttosto amara ma non riuscivo a staccare gli occhi dalle pagine. Ho letto le ultime due delle tre parti in cui è diviso il libro in due notti. Sono molto legato alla montagna ma questo librò ha alimentato ancora di più la mia passione. Lo consiglierei a chiunque abbia bisogno di una storia avvincente, realistica, struggente ma al contempo che dia degli spunti di riflessione. Personalmente, io l’ho adorato.
Avrà vinto molti premi ed ottenuto successi e recensioni positive, ma personalmente non mi è affatto piaciuto. L'ho trovato noioso, un vero mattone. La storia aveva di base del potenziale, ma sinceramente ho avuto molta difficoltà a portarlo a termine.
Recensioni
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In Nepal si dice che il mondo è una ruota a otto raggi. Al centro c’è una montagna altissima, il monte Sumeru, intorno otto montagne, i raggi della ruota, e tra di loro otto mari. (…). Nella terza parte di “Le otto montagne” Bruno, il montanaro, domanda a Pietro, il narratore: “Tu saresti quello che va per le otto montagne e io quello che sale sul monte Sumeru?”. “Pare proprio di sì”, risponde Pietro. Bruno non ha mai lasciato il piccolo paese natale di Grana. Pietro, il milanese, lavora in Himalaya. Ma hanno una casa in comune, fatta con le loro mani: “Barma drola che è il centro della ruota nella seconda parte: un vecchio rudere ricostruito, con due stanze, una piccola e chiusa con il lucchetto, perché è il deposito degli attrezzi, l’altra grande, con la stufa, sempre aperta come un rifugio (…). Ognuno è il centro del proprio mondo e intorno a lui i raggi della ruota sono le persone che gli sono care. Conoscersi è difficile come salire il monte Sumeru.
Molti diranno che in questo libro è la montagna il centro della ruota. A me pare che nella prima parte, Montagna d’infanzia, il centro sia il narratore, fino ai sedici anni. Lo ritroviamo a trent’anni nella seconda. Nella terza il centro è Bruno. Le otto montagne è scritto come un classico, limpido e asciutto. Ha la pendenza aurea del romanzo breve e percorrendolo si respira bene. Per metà del racconto i fatti si svolgono lineari; poi arrivano le sorprese. Pochi sono i personaggi: i due amici, i loro genitori, qualche parente stretto. Leggendo veniamo a conoscerli bene. La trama è l’amicizia: è questo il centro della ruota nepalese. La montagna è il cerchione: senza di esso i raggi non stanno insieme. Se la ruota è un simbolo, il racconto ci offre altre due immagini simboliche. Se entriamo nell’acqua di un torrente, che scorre come il tempo, dove sono il passato e il futuro? domanda a Pietro il padre. “Il futuro è giù, dove va l’acqua” risponde Pietro; cioè a valle. “Sbagliato, per fortuna” lo corregge il padre. Solo qualche anno dopo, andando a pesca Pietro capirà perché ha sbagliato. Se guardi a monte, come fanno i pesci, che mangiano con il muso rivolto alla corrente, il futuro ti viene incontro e alle spalle hai l’acqua passata. Il destino viene dall’alto, dalla montagna. Ma se le volti le spalle, il futuro è a valle, dove l’acqua scende. Ogni simbolo è reversibile. In montagna si può vivere al diritto, a l’adret, oppure al rovescio, a l’envers. Il diritto è il versante esposto a sud; il rovescio è il versante nord, dove la luce è riflessa e l’inverno dura a lungo. Nelle loro scorribande Pietro e Bruno amano esplorare i versanti all’envers, e all’envers si costruiranno la baita; e la vita. Guardano a monte. Ma quale versante? La ruota non lo dice (…).
Recensione di Andrea Casalegno
Cognetti compone il romanzo come il dipanarsi di un sentiero di montagna. Osserva le parole, le sceglie. Sale. Con passo regolare. Non sembra far fatica, è uno scalatore esperto. Il sudore e la fatica si possono solo immaginare, perché ciò che conta è la bellezza della salita, il respiro delle parole che creano un ritmo cadenzato ed equilibrato. E con questo linguaggio pacato, continuo, fluido, Cognetti ci mostra uno scorcio di montagna in una trama ordinaria. È ordinaria la famiglia, che vive in città durante l’anno. È ordinario Pietro, il figlio, che passa le sue estati d’infanzia in montagna, in compagnia di un bizzarro ragazzino che non conosce altro che la quotidianità del pascolo. Ma nell’ordinarietà, si insinua un’inaspettata malinconia.
Non ho mai amato la montagna, lo confesso. Si è mostrata nella sua sfolgorante bellezza una sola volta, qualche anno fa. E da allora non sono più tornata. Ma Cognetti mi ha fatto venire nostalgia. Mi ha fatto venire voglia di tornarci. Leggendo, ho ricordato il silenzio che colma la solitudine. Ho ricordato la fatica che scava, che umilia, che mortifica per rendere più umani. È questo ciò che mi ha commosso del romanzo. L’amore per la montagna diventa tangibile nelle parole di Cognetti. Anche per chi, come me, la montagna non ha mai imparato ad amarla abbastanza.
Recensione di Federica Martina Iarrera
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