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Le donne hanno una marcia in più, anche in poesia, e questo libro lo dimostra: chiarezza, profondità, apertura a un sistema simbolico ancorato nel corpo e nei suoi succhi. Bellissimo.
Era molto atteso, se ne parlava molto. Qualcosa si era letto (Uova, il QPI di Buffoni). Arriva, finalmente. E non delude. C'è in questo libro qualcosa di "socialmente" necessario, eppure iscritto carnalmente nel corpo. Il flusso-dovere-potere delle generazioni, l'individuale ribellione, le fibre che resistono odio-amano raccontano. Tutto questo in un discorso che sa farsi poema per coerenza interna, concentrica. E' proprio quando il tuffo è così profondo dentro di sé, che la poesia si apre all'universalità. In un dettato chiaro, martellante, ma non aspro (ricorda Insana ma senz'ombra di femminismo ferito), Elisa Biagini è tra coloro che fanno sognare a noi lettori una poesia italiana finalmente libera.
Il libro è la scena - non teatrale e barocca ma quasi <i>set</i> a/settico di autopsia - dove continuamente si consuma e ricostituisce un corpo.<br> Il movimento ricorrente dello sguardo e dei gesti su cose e memoria è quello invasivo, come di calco e impronta (e impresa-impressione): netta la ricorrenza di «in», «dentro», «tacche», «solchi».<br> Giustamente Andrea Cortellessa, in una presentazione recente del libro, ha citato <i>L'intruso</i>, di Jean-Luc Nancy.<br> La parola-corpo si attesta nella dissezione o durezza di una luce <i>clinica</i>: e - anche - nella dislocazione verso la lingua altra: l'inglese: «digging / for maps / of genes».
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