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Anno edizione: 2004
Anno edizione: 2004
Rileggere "tutto Márquez" è calarsi fino al collo e oltre nel fluido straripante di una delle poche grandi novità del secondo Novecento: il colpo d'ala inferto all'umanissima arte del narrare dall'autore colombiano, una svolta epocale la cui sigla specifica riprende forma davanti ai nostri sensi sbigottiti a ogni riga, presa a caso. Tale svolta non la si misurerà certo su parametri sinottici periferici, come si faceva un tempo, comparando le date di Cent'anni di solitudine (1967) con scadenze nostrane (che so, Il giuoco dell'oca di Sanguineti, 1967; Fratelli d'Italia, 2aL'arte della fuga di Pontiggia, 1968), anche se varrà la pena di registrare ancora una volta la fresca risposta di una lettrice d'eccezione, pressoché priva di pregiudizi letterari: "Tempo fa un giornale mi ha chiesto di rispondere alla domanda se credevo che il romanzo fosse in crisi, ma non ho risposto, perché le parole 'crisi del romanzo' le trovavo odiosissime (...) Poi ho letto Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez, colombiano che vive in Spagna. Da tempo non leggevo nulla che mi colpisse tanto profondamente. Se è vero come dicono che il romanzo è morto, o si prepara a morire, salutiamo allora gli ultimi romanzi che sono venuti a rallegrare la terra" (Natalia Ginzburg, 6 aprile 1969).
Né lo si può misurare, ancora, solo nella portata complessiva dell'ondata letteraria del continente latinoamericano e del suo straordinario successo, anche di massa, che tra l'altro è durato solo fino a ieri e oggi si perde sempre più a Sud dietro autori minori o "inesistenti". Sarà più opportuno, intanto, restare fermi alla distinzione generale, oggi in parte dismessa, dentro il continente, tra un Cortázar e un Borges, da una parte, e i Vargas Llosa e i Márquez, dall'altra - tanto per procedere con il taglio dell'accetta -; teste un lettore d'eccezione, ma munito d'accetta pure lui e affilatissima per proprio esclusivo uso, come Italo Calvino, nelle cui Lezioni americane (1988) si dedicano parecchie pagine proprio a Borges e neppure una riga o citazione del nome, tanto per l'inventario, all'autore della Zia Julia e di quello di Cent'anni e di Cronaca (su 141 autori, tutti compresi, trattati nelle Lezioni).
Lo si misura e misurerà, poi, nella maniera più consona, ovvero tornando a quei magnifici e mirabolanti congegni magici, ma non per girarli a vuoto o per semplice rompicapo, che sono i suoi racconti e romanzi. Per strapparne il segreto: compito che mi pare resti in buona parte da assolvere, e se la vedano gli specialisti: notato lo scarso spazio, relativamente al calibro dell'autore, concesso a Márquez dai primi quattro volumi paraenciclopedici del Romanzo, a cura di Franco Moretti, per Einaudi? Ci si può godere, allora, questo secondo volume del "Meridiano", lasciandoci convincere che barocco non è solo Gabo, Barocco è il mondo, come recita il titolo del saggio introduttivo di Bruno Arpaia, entusiasticamente partecipe e brioso, "agile" come si auspicava un tempo per le prefazioni, agilissimo nel trapassare in veloce schidionata citazioni dai più medagliati critici, da Segre a Todorov (ma poi il Todorov che legge Cronaca di una morte annunciata non compare nella finale bibliografia, e vattelapesca dove dice le cose citate).
La rilettura può partire dai famosi incipit: "Durante il fine settimana gli avvoltoi s'introdussero attraverso i balconi della casa presidenziale, fiaccarono a beccate le maglie di ferro delle finestre e smossero con le ali il tempo stagnato all'interno" (L'autunno del patriarca); "Il giorno che l'avrebbero ucciso, Santiago Nazar si alzò alle 5 e 20 del mattino per andare ad aspettare il battello con cui arrivava il vescovo" (Cronaca di una morte annunciata); "Era inevitabile: l'odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati" (L'amore ai tempi del colera); "José Palacios, il suo domestico più antico, lo trovò che galleggiava sulle acque depurative della vasca da bagno, nudo e con gli occhi aperti, e credette che fosse annegato" (Il generale nel suo labirinto). Chi ha studiato egregiamente la dimensione del tempo márquesiano, a volte già condensata nell'incipit, è Cesare Segre, sottolineando che nel giro del "tempo curvo" e ciclico il "presente [è] anche percepito nella prospettiva di passato che gli darà il futuro".
Il fascino del relativismo temporale - e pure spaziale -, di tipo comunque non lineare, non permetterà tuttavia che si eclissi il rapporto più o meno costante che il tempo (e con lui la sua morte) instaura con la "giustizia", intesa in prima battuta in senso generale di una giustizia esistenziale assoluta, incluso lo scandalo della morte, della consunzione e della decomposizione, quasi mai enunciata, sempre presente e presupposta, e nel senso, poi, della giustizia di un continente dove il tema dell'"infamia" s'impone nei secoli all'ordine del giorno. Un rapporto tempo/giustizia che tra l'altro rientra solo con una forzatura nella categoria del barocco. Se si insiste ancora sull'anticipazione del tempo futuro si ragiona pur sempre in termini lineari. Così intesa, l'anticipazione non è che un flashback al contrario, mentre in Márquez il tempo subisce un processo di implosione, diventa - per abusare di una metafora astrofisica - il black hole in cui passato, presente, futuro si fondono e cancellano le loro distinzioni in un tempo, al limite, sempre uguale a se stesso, che può essere un analogo moderno del mito, oppure lo specchio delle sorti di un paese, o altro ancora se qualcuno ci vuol vedere legittimamente altro. Quella del tempo fu la sua "danza immobile", per dirla con il titolo di un romanziere sudamericano oggi quasi dimenticato, Manuel Scorza.
Per dire, insomma, che le nostre categorie qui spesso falliscono e tradiscono. Predicava Cechov che se all'inizio di un racconto viene descritto un fucile appeso a una parete, prima o poi quel fucile deve sparare. Nessun esempio sintetizza meglio la logica del narrare ottocentesco. Il fucile deve sparare, qualche personaggio lo imbraccerà, qualcuno resterà colpito, al lettore non resta che inseguire la storia fatto dopo fatto, detto dopo detto. In Márquez il fucile ha già sparato quando la sua canna è ancora fredda, il personaggio è già morto mentre lo si vede camminare, alla storia non resta che inseguire il lettore e cacciarlo nel labirinto dei fatti e dei detti, dove è persino possibile che il fucile abbia sparato davvero. Nel primo caso il racconto è dato come la relazione di fatti (virtualmente) avvenuti nella realtà, secondo il patto di "corrispondenza referenziale", nel secondo il racconto medesimo costruisce la "realtà" molteplice dei fatti. Belle grosse, le conseguenze sono davanti al nostro naso. "Soprattutto non gli parve mai giustificato che la vita si servisse di tante casualità proibite alla letteratura, perché si compisse senza ostacoli una morte tanto annunciata." (Cronaca di una morte annunciata è fitta di riferimenti metaletterari e pour cause).
Il caso, dunque. Casi e dicerie si aggregano a loro volta (in apparenza) casualmente sulla pagina scritta per fornire infine un cristallo di simmetria perfetta. In barba ai supposti - ad arte - limiti e proibizioni della letteratura, essa dà forma alla vita nel corso di un'inchiesta che mima quella di un giornalista o di un detective o di un giudice, ovvero i professionisti della ricostruzione dei fatti che farebbero tanto comodo e gola a Cechov. E invece il meccanismo letterario macina in direzione opposta: non esiste un fatto (virtualmente) "storico" di cui il romanziere sia il traduttore sulla pagina, l'artista che lo disegna.
Seconda conseguenza. Dalla tragedia greca al romanzo ottocentesco con le sue propaggini, il Destino fa emergere il "personaggio", vittima o eroe, gli conferisce il risalto dell'uomo non solo esemplare ma illuminato dalla luce privilegiata di una riconoscibilità universale. "La fatalità ci rende invisibili", scrive invece il giudice istruttore sul foglio 382 dell'istruttoria di Cronaca di una morte annunciata. Tutto è già scritto, non nella mente di un dio o della Storia, ma nella prima parola e nel primo atto del personaggio o dei personaggi e dell'autore, il quale a questo punto esige di coincidere con il personaggio collettivo: "Quando il giudice istruttore le [ad Angela Vicario] chiese con il suo stile laterale se sapeva chi era il defunto Santiago Nazar, lei gli rispose impassibile: 'È stato il mio autore'".
Terza conseguenza. Con tale carica di dinamite sotto il sedere della Storia, nel senso romanzesco e nel senso europeo di catena "logica" di eventi umani, anche le possibilità tradizionali del Bildungsroman vengono meno. In nessun posto come in Sudamerica la Storia è maestra di nulla o di una ripetizione. Si riparte sempre da zero, dalla nascita e dalla morte, l'incipit è già pregno della fine e puzza di cadavere corrotto, come quello del Patriarca. Qualcuno in tutto ciò potrà anche vedere la gigantesca risposta alla cultura europea e al mito europeo del messianismo storico da parte di un continente che rivendica quasi con un urlo o con l'abisso del silenzio e infine con tutta la forza della sua lussureggiante fantasia, il proprio "tempo".
Resta allora da indagare, in noi stessi, lettori di qua dalla sponda atlantica, pure sociologicamente, le ragioni di tanto successo dell'universo di Macondo e tutte le sue reincarnazioni, persino di costume: ripulsa in pieno Sessantotto e in seguito dei gravosi compiti della Storia e della Rivoluzione? E nostalgia, oltre il folclore e della tentazione "esotico-turistica" sempre presente, di un mondo a parte non poco ristoratore e consolatorio? E dunque un ennesimo equivoco nel momento che disconosciamo la forza di protesta del nuovo "tempo" rivelato dai sudamericani? Comunque sia, un altro fattore che distanzia l'opera di Márquez dalla categoria, pur sempre europea, del barocco, non è solo, eventualmente, l'armamentario retorico (che so, la prevalenza dell'iperbole sulla metafora), ma è la concezione della letteratura "come finzione e menzogna" che il neobarocchismo novecentesco nostrano ha coltivato e coltiva a lungo, magari sulla scorta di Borges. Per Márquez la letteratura è, invece, la Verità.
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