Amelia Rosselli,
L'opera poetica, a cura di Stefano Giovannuzzi, con un saggio introduttivo di Emmanuela Tandello, pp. CL-1609, 65, I Meridiani, Mondadori, Milano 2012. "Amelia Rosselli ha soprattutto scrittura. Ha soprattutto fascino". Con queste parole Giovanni Giudici si congedava dai lettori della sua Introduzione a
Impromptu, il poema pubblicato nel 1981 da Rosselli, per fare spazio alla voce sinistramente incantatrice della stessa, riassumendo con giudizio così netto e folgorante l'intera carriera di questa e il percorso tortuoso della sua produzione poetica. Eppure quella di Amelia Rosselli rimane a tutt'oggi una voce inascoltata, "straniera" per la maggior parte dei lettori di poesia; esperita soprattutto da una cerchia di appassionati e dal pubblico degli specialisti e degli addetti ai lavori. Per quanto ciò appaia ingeneroso, gli ostacoli alla sua ricezione non devono sorprendere. L'autrice rappresenta un
unicum all'interno del panorama già eccentrico e di per sé abbastanza rizomatico della poesia italiana del Novecento, una figura "di difficile sistemazione". Soprattutto, l'arditezza della sua scrittura e il vorticismo dello stile si rendono elementi di non facile interpretazione anche da parte del lettore meno ingenuo, sia per via del continuo sottintendere agli innumerevoli testi della tradizione poetica italiana ed europea sia a causa della deriva semantica che ciò comporta. Una poesia controversa, dunque, che torce il verso e allo stesso tempo si ritorce riusandola contro una tradizione da cui attinge ampiamente. Come suggerisce Emmanuela Tandello, nel saggio introduttivo al volume
L'opera poetica, edito da Mondadori, quella di Amelia Rosselli è una voce "estranea", cioè di una presenza "vissuta all'insegna della differenza rispetto a una tradizione che sembrerebbe starle stretta". L'opera che raccoglie "l'intero
corpus poetico" della scrittrice permette allora di varcare la soglia di quest'officina poetica, così da rendere anche il lettore meno avvezzo capace di apprezzarne il canto. Il volume (a cura di Stefano Giovannuzzi, con la collaborazione di Francesco Carbognin, Chiara Carpita, Silvia De March e Gabriella Palli Baroni) accoglie, scandendone cronologicamente la successione, i testi pubblicati dall'autrice più tutti gli inediti finora ritrovati, ed è corredato, oltre che da un'accurata cronologia, da un apparato critico e bibliografico cospicuo ed esaustivo. Le
Notizie sui testi, che introducono ogni raccolta, sono strumenti utilissimi per la comprensione, la decodificazione e l'interpretazione di questa scrittura al limite del pronunciabile, e permettono di ritrovarne le motivazioni profonde e le ragioni compositive, illuminandone il farsi e la genesi dei testi. Dall'esordio deflagrante di
Variazioni Belliche (1964) e dallo sperimentalismo de
La Libellula (1958) e di
Serie Ospedaliera (1969), al ritorno alle forme più classiche di
Documento (1976), fino al poema
Impromptu (1981), coincidente con la scelta di abbandonare la composizione letteraria e con la "caduta della vocazione poetica", il libro evidenzia l'evoluzione dell'autrice che pur nella sua mutevolezza rimane avvinta a pochi ma fondamentali motivi stilistici e contenutistici. Insieme, le prose poetiche di
Diario Ottuso (1990), la poesia bilingue di
Sleep (1989), coevo agli esercizi dei
Primi Scritti 1952-1963 (1980), e gli
Appunti Sparsi e Persi (1983) chiudono il volume. Amelia Rosselli, pur appartenendo all'area dello sperimentalismo, mantenne una posizione equidistante dalla poetica referenziale e civile di Pasolini e dei poeti di Officina come dagli esperimenti formali della Neoavanguardia. La sua scrittura, puntellata da antinomie inconciliabili, intreccia un fondo intimamente (auto)biografico, legato alla tragedia personale e storica vissuta dalla sua famiglia (l'esperienza di "fuoriuscita" dalla Storia segnò irreversibilmente tutta la vita di Amelia, fino alla sua funesta conclusione, avvenuta per suicidio nel 1996), e interiormente franto dal conflitto psicologico che ciò suscitava, con un'attenzione scrupolosa verso i valori più sublimi del letterario, nella ricerca della parola come altro da sé. Lontana dai cascami della
confessional poetry, scevra da ogni referenzialità, si nutre di se stessa, referto di un corpo in continua auscultazione, sia esso quello dell'autrice sia quello ancora più martoriato della Tradizione. Derivano da ciò i cardini e i principi di costruzione poetica e di scelta stilistica che le danno forma. Il suo erompere trova spazio attraverso le scritture degli altri poeti conosciuti e amati (Rimbaud, Lautréamont, Montale e Campana, per citarne i più ossessivi e ricorrenti) e diviene ragionamento sulla scrittura stessa, secondo un esercizio pulsionale e meta poetico da cui si genera una poesia letteraria e antiletteraria allo stesso tempo, "analfabeta" e ipersofisticata. In ogni testo, la citazione, l'ipotesto vengono assunti per essere scossi, ironicamente e platealmente, ed essere sottoposti a un "rapporto dialettico", "di affermazione e negazione", che, come nota Emmanuela Tandello, "permette l'emergere di un discorso altro, potenzialmente (
) opposto, (
) critico rispetto al modello".
Rivolta all'urgenza del senso dietro il significante, la poesia di Amelia non diventa però mai gioco o maniera ma pronuncia dolorosa e sofferta di un "linguaggio (
) che (
) oscilla indeciso fra verità e menzogna, fra risorsa che è ancora possibile utilizzare, o al contrario, da rigettare". È un procedere incessante in cui "la dimensione personale diventa allegoria della letteratura e viceversa", e dove la parodia, l'ironia, la disgregazione del linguaggio e la perdita di fiducia verso di esso mimano la "disappartenenza", il "dramma autobiografico", la mitopoiesi dell'autrice intrappolata nel suo "disagio esistenziale": "la stancata bestia nascosta" che enumera farneticando "in malandati versi" la "normalità dell'orrore", "la quotidianità come dominio privilegiato del terribile".
Il "tu" a cui Amelia spesso si rivolge è un pronome informale, "specchio della separazione" e "abolizione del'io", "forma di oggettivazione interna"; "testimonianza di sé" e dell'"impoetico del mondo". Questa poesia balbettante e straniata, straziata dall'indicibile e dall'impossibile pronuncia di sé, trova nell'"aspetto grafico" e nel "rigore formale" il riscatto alla propria necessità esorbitante. Dalle ricerche in campo musicale (illustrate nel saggio teorico Spazi Metrici, 1962) e dall'esempio della "musica dodecafonica", Amelia Rosselli ricompone in una nuova forma poetica (la "forma cubo") il rapporto con la musica e la parola. Ma è soprattutto nell'"autonomia inventiva della parola" che si traduce il linguaggio esclusivo della sua poesia. Il valore verticale della parola è inteso come modulo fonetico e semantico da cui far geminare sensi ulteriori e molteplici, producendo un discorso in maniera virale. Ne è esempio il titolo stesso del poemetto La Libellula dove il singolo lemma contiene in sé in una "fusione associativa" i termini di libertà e di libello. Risiede in questa costante e ambivalente scelta del significato il modo e il senso del costruire poetico del linguaggio assoluto della scrittrice: un vocabolario contenuto in ogni parola, un senso sempre debordante, rimandato e volenteroso di accogliere altri significati. In tale produttività semantica, dentro questi nuclei fecondativi risiede il valore della sua poesia e l'energia che da essa scaturisce: l'autentico "dramma" poetico, il combattimento che inscena l'autrice con sé e il corpo di un linguaggio sempre sfuggente. Una poesia bellicosa e bellissima dove "I vostri inverni non bruciano di quel inchiostro che io tengo in mano".